La Svezia ha deciso di vietare i tablet nelle scuole perché provocano problemi di apprendimento. La stessa iniziativa è stata adottata dai governi di Paesi Bassi e Finlandia per tutti i dispositivi elettronici, smartphone inclusi. Nelle scuole italiane i telefoni cellulari e analoghi dispositivi elettronici sono stati vietati per tutelare l’apprendimento dei ragazzi e per il rispetto dei docenti.
«Apparentemente, nazioni che stavano avanti stanno tornando indietro», rileva, contattato da «L’Osservatore Romano», Paolo Benanti, francescano, esperto di etica, bioetica ed etica delle tecnologie, docente presso la Pontificia Università Gregoriana: «In realtà, i Paesi del nord Europa che stanno applicando decisioni simili restano comunque avanti rispetto a tanti altri perché hanno capito una cosa: non basta dare un tablet agli studenti per educarli alla tecnologia. Il digitale in quanto puro supporto elettronico alla formazione rischia di rappresentare una barriera tra alunni e studenti: c’è chi lo sa usare e chi no. Bisogna invece integrare i mezzi informatici coi patti educativi. Ma, per fare questo, occorre uno sforzo in più».
In questo senso può venire in aiuto l’intelligenza artificiale, «la cui novità è rappresentata dalle cosiddette intelligenze artificiali generative — prosegue Benanti — pensiamo a Chat GPT , ormai diffuso a tutti i livelli: scrittura, calcoli, traduzioni. Chiunque, giovani e adulti, e sottolineerei soprattutto gli adulti, usano questo chatbot come motore di ricerca. Ma Chat GPT è stato pensato come un modello di linguaggio volto a intrattenere l’utente e, solo grazie ai vari aggiornamenti, esso è stato riempito di informazioni ed è diventato la banca dati con cui ci interfacciamo oggi. Certo, questa svolta porta con sé un rischio. Fare un uso distorto della tecnologia e annullare il senso critico dell’uomo nei confronti del contenuto: si cerca, si trova, si copia e s’incolla ma non si pensa». Ed è proprio qui e ora che dovrebbe intervenire la formazione: «L’intelligenza artificiale generativa sta indirizzando il rapporto tra uomo e tecnologia verso il linguaggio. Non ci si ferma più alla semplice interazione fisica tra mano, mouse e tastiera. Oggi davanti a un computer si cerca, si riflette, si dialoga. Uno strumento non può essere visto come buono o cattivo. Dipende tutto dall’intenzionalità: un coltello può tagliare come può uccidere. E, per capire come usare lo strumento nel modo migliore, bisogna avere pensiero critico».
Ma la scuola sarà capace di fare tutto ciò? «Ci siamo riusciti col “Rocci”, perché non farlo con Chat GPT — sorride Benanti —. È una battuta. Però, se ci pensate, il vocabolario di greco dava a una singola parola greca infiniti significati in italiano, spesso diversissimi gli uni dagli altri. Stava a noi studenti dover decidere. Gli insegnanti erano riusciti a trasmettere il metodo per usare quel dizionario infinitamente complesso e per scegliere la parola adatta. Lo stesso può avvenire con la tecnologia. A una condizione, però: tocca agli insegnanti. Quando si parla di tecnologia, la formazione deve andare nella classica direzione: gli adulti devono insegnare ai giovani. Non può essere il contrario».
Eppure, se si parla di fenomeni simili, sembra che la scuola sia spaventata. La cronaca lo dimostra: quando si parla di smartphone e tablet in classe si parla solo di eccessi, divieti, limiti da aggirare attraverso carta e penna, come se tutto ciò che ha funzionato nel passato debba continuare a ripetersi nel presente. «Dipende tutto dalla velocità di questa trasformazione — precisa Benanti —, il mondo di oggi procede molto più speditamente rispetto al passato e la scuola fa fatica a stargli dietro. Pure chi si è cimentato per primo in questa esperienza, come la Svezia o la Finlandia, ha trovato difficoltà. Dall’altro lato, c’è bisogno di digitalizzare gli insegnanti stessi: i primi a dover imparare, lavorare sul proprio ruolo e sul proprio senso critico sono proprio loro. Resto fiducioso: finché ne parliamo c’è speranza».
Anche perché, tra i vari rischi, c’è quello di creare un’ulteriore barriera col mondo dei giovani. Smartphone e tablet vengono spesso visti dai ragazzi come strumenti di intimità, capaci di racchiudere emozioni, ricordi, messaggi. Se “il mondo dei grandi” pone un divieto, come reagiranno i più piccoli? «Ciò che la scuola non affronta è lasciato all’autoformazione — riflette Benanti — insomma, non esistono vuoti. E questo può rappresentare un rischio, perché si può presto scadere negli eccessi e negli abusi: cyberbullismo, suicidi, hikikomori. La percezione dell’intimità sta cambiando, se pensiamo al fatto che condividiamo una parte della nostra esistenza con la collettività e non sappiamo quale uso ne viene fatto. Sicuramente, rinunciare all’educazione è sempre controproducente. Soprattutto se a farlo è la scuola».
L’Osservatore Romano – 22/9/2023