Il ginocchio appoggiato sull’asfalto, il piede incastrato nel blocco, il busto inclinato in avanti. Pronto a sentire il segnale, uscire dalla postazione, accelerare sulla pista, sviluppare la massima velocità. Dalla fase di appoggio alla fase di volo. Dalla posizione raccolta alla posizione eretta. Dall’inerzia alla velocità massima.

Se nello scorso appuntamento di #CantiereGiovani tanti ragazzi ci hanno detto di trovare i loro miti nel mondo dello sport, a noi è venuto spontaneo pensare all’atletica, alla corsa, a Filippo Tortu. Perché Filippo è giovane, nasce nel 1998 a Milano; perché vince, è campione olimpico della staffetta 4×100 metri ai Giochi di Tokyo 2020, primo italiano a scendere sotto i 10 secondi sui 100 metri piani, agli Europei della scorsa settimana ha conquistato la terza posizione; perché ha un rapporto speciale con “Athletica Vaticana”; e perché la corsa è ovunque, nello sport come nella quotidianità.

Ti senti un punto di riferimento per i tuoi coetanei?

Solitamente non ci penso, anche se più volte mi è stato detto di esserlo. Piuttosto, capita di sentirsi un punto di riferimento per chi inizia a fare atletica. E allora l’obiettivo diventa un altro: dare vita a un movimento di atleti che possa aiutare il prossimo a capire l’importanza e la bellezza di praticare sport.

E come si comunica ai giovani? Cosa vogliono vedere, il Filippo atleta o il Filippo essere umano, con cuore, testa e sogni?

L’attenzione del pubblico e di chi crea contenuti sui social network è sempre più rivolta a ciò che avviene fuori dal proprio lavoro, al racconto della quotidianità, una sorta di “dietro le quinte”. Personalmente, non riesco a condividere la mia vita privata sui social perché non credo che si possa far capire come sono fatto attraverso un video, una foto o una descrizione.

Da un lato i risultati e le gare. Dall’altro gli allenamenti e la disciplina. Che però per te non sono sinonimo di rinuncia e di sacrificio. Come mai?

Quando i genitori vengono a raccontarmi cosa fanno i loro figli si ostinano a dirmi sempre le stesse cose: «Non sai quanti sacrifici abbiamo fatto per iniziare a gareggiare». E via con le alzatacce la mattina presto, la rinuncia a uscire la sera, a mangiare una pizza in più o a fare un corso dopo scuola. Non penso sia un buon modo per incoraggiare i ragazzi. Credo che tutto ciò sia obbligatorio quanto naturale per arrivare ad alti livelli. Fa parte del gioco. Sacrificio è una parola che, nello sport, a me non piace. Perciò, io parlo di divertimento, viaggi, conoscenze, amicizie, dell’adrenalina all’ingresso in uno stadio. E dello sport come rapporto con sé stessi, con i propri sogni e le proprie paure, di interazione con la sofferenza.

Ecco, sofferenza e individualità. L’atletica è uno sport individuale. Ma la solitudine può fare bene a una persona e, in particolare, a un giovane?

Fa parte della vita. Non è detto che avrai una persona al tuo fianco per sempre. Dobbiamo imparare a stare bene da soli come, allo stesso modo, dobbiamo saper stare bene con gli altri. L’atletica aiuta molto: è uno sport individuale ma, in realtà, quando scendi in pista rappresenti il lavoro dell’allenatore, dei preparatori, dello staff. Rappresenti una squadra. E, se sai fare gruppo, vinci. Tra i 20 e i 25 anni dovremmo dedicare più tempo possibile a conoscerci meglio e a farlo senza paura perché, se non conosciamo le nostre potenzialità e debolezze, difficilmente potremo creare una relazione sana col prossimo. Purtroppo, non avviene spesso: anzi, tanti miei coetanei, per esempio, non riescono a non essere fidanzati. «Se l’alternativa è stare soli, meglio iniziare una relazione», dicono. Ma queste sono relazioni tossiche! Il rapporto col prossimo non deriva da una necessità, ma dalla spontaneità, dalla genuinità. Bisogna saper stare da soli.

Significativo il tuo impegno nello studio e il rapporto con la tua famiglia: è facile raccontare tutto ciò ai giovani?

Non è sempre facile, ma essenziale sì. Per lo studio, bisogna far capire che è necessario pensare anche a qualcosa che avviene fuori dalla pista. Poi, ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che è sempre stata presente, mi ha accompagnato e compreso, ma mi ha lasciato anche spazio. Lo vedo nel rapporto con mio padre, che è anche il mio allenatore. Lui decide, ma vuole sempre ascoltare la mia opinione. Mi lascia libero di scegliere e di sbagliare, però sa cosa e come consigliarmi.

Ma tu ce l’hai un mito?

Non ho mai guardato ad altri atleti come punto di riferimento perché non li conosco di persona. Eppure, una persona che mi ha sempre emozionato c’è: Livio Berruti, campione olimpico dei 200 metri piani ai Giochi di Roma 1960. L’ho conosciuto tempo fa e posso dire che, sì, lui è una persona unica.

L’Osservatore Romano – 07/07/2023