Chi si aspettava grandi risultati dal viaggio a Roma del presidente ucraino Volodymir Zelens’kyj (Zelensky) è rimasto deluso. Eppure, era difficile credere che qualcosa di eclatante potesse avvenire.

Innanzitutto, perché bisogna tenere conto dei tempi, della complessità e della riservatezza della diplomazia. Fattore accentuato quando si parla di Santa Sede – Agostino Casaroli, cardinale segretario di Stato vaticano dal 1979 al 1990, parlava del martirio della pazienza – dove peraltro occorre distinguere tra diplomazia personale del papa e diplomazia vaticana.

Papa Francesco non ha mai parlato di sforzi per un negoziato o per una mediazione tra Mosca e Kiev. Di ritorno dal viaggio in Ungheria, il pontefice ha parlato di «missione di pace». La differenza è semantica quanto sostanziale: Bergoglio parla di pace, Ucraina e Russia parlano di vittoria. E finché la pace continuerà a essere vista come una sconfitta per le parti in guerra, il sostegno di Francesco pare confinato al campo umanitario.

Lo confermano le parole dello stesso Zelensky: al programma televisivo Porta a Porta su Rai1, il presidente ucraino ha detto che «con tutto il rispetto per il papa, non abbiamo bisogno di mediatori fra l’Ucraina e l’aggressore che ha occupato i nostri territori».

Ma allora perché Zelensky è andato dal papa? E perché Francesco ha accettato di riceverlo? Blindare Roma, far schierare il picchetto d’onore nell’Arco delle campane adiacente all’aula Paolo VI, far accogliere il presidente ucraino da monsignor Leonardo Sapienza, reggente della Prefettura della casa pontificia, e dall’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede Andrii Yurash, conversare per oltre quaranta minuti, scambiarsi doni, infine far incontrare Zelensky con Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli Stati della Santa Sede: tutto ciò è stato inutile?

No, per niente. Né si è trattato di un semplice incontro di cortesia. Piuttosto, la diplomazia di papa Francesco in Ucraina va inquadrata in almeno tre schemi.

Il primo: la Santa Sede crede che non ci possa essere pace fra le nazioni se non c’è pace fra le religioni. L’azione diplomatica di Bergoglio è intesa a neutralizzare lo scontro identitario e religioso che è serbatoio di odio fra popoli, così come a evitare che fedeli e edifici di culto cristiani siano presi di mira da bombardamenti e atti di discriminazione. Come? Proprio parlando con i leader politici e religiosi.

Per la Russia, il pontefice ha sfruttato il canale offerto dall’ambasciatore russo presso la Santa Sede, Alexander Avdeev, diplomatico assai stimato ormai in uscita, cui sarebbe stata consegnata una lettera per Vladimir Putin a proposito di missioni umanitarie. Giorni fa, il metropolita Antonij di Volokolamsk, presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca, è stato tra gli ospiti d’onore dell’udienza generale in piazza San Pietro su invito personale di Francesco. Per l’Ucraina, prima di Zelensky, Bergoglio aveva avuto un colloquio privato col primo ministro Denys Anatolijovyč Šmyhal’ (Shmyhal). Da segnalare è anche l’attività del nunzio a Kiev, monsignor Visvaldas Kulbokas. Impegno religioso che diventa così impegno umanitario.

Perciò il secondo schema entro cui riassumere la diplomazia di Francesco può essere spiegato con i termini usati da padre Antonio Spadaro: il direttore de La Civiltà Cattolica, nel suo libro L’Atlante di Francesco, ha parlato della diplomazia di Bergoglio come «diplomazia della misericordia». Il papa ha ricordato più di 120 volte in pubblico la «martoriata Ucraina», ha negoziato lo scambio di oltre 300 prigionieri tra Mosca e Kiev, ha inviato nel paese aggredito i cardinali Czerny e Krajewski, alla via Crucis dello scorso anno ha fatto portare la croce a una donna russa e a una ucraina.

Infine, c’è lo schema storico. Alla vigilia della prima guerra mondiale, Pio X invitò le nazioni europee a fare «progetti di pace e non di sventura». Pio XI scrisse l’enciclica Mit brennender Sorge in tedesco e la distribuì nelle chiese della Germania affinché i cattolici non seguissero il nazismo. Sessant’anni fa, Giovanni XXIII rivoluzionò il messaggio della Chiesa cattolica con l’enciclica Pacem in terris. Paolo VI seguì da vicino lo sforzo di Giorgio La Pira per la fine della guerra in Vietnam. Nel 2003 Giovanni Paolo II inviò il cardinale Pio Laghi a Washington e Roger Etchegaray a Baghdad, senza riuscire a scongiurare il conflitto in Iraq.

Molti ritengono che papa Francesco possa poco nella partita diplomatica in Ucraina. Soprattutto dopo il bilaterale con Zelensky. Eppure, di fronte alla «terza guerra mondiale a pezzetti», il pontefice non può né vuole farsi da parte. Con prudenza e pazienza. Perché, come lo stesso Francesco ha detto, «a volte il dialogo puzza, ma si deve fare, altrimenti chiudiamo l’unica porta ragionevole per la pace».

Limes – 15/05/2023