Al centro dell’abbazia, la statua di San Benedetto. Senza testa e senza mani. Perdona, ma non dimenticherà. Sotto un arco spezzato in due, Gregorio Diamare, abate e vescovo di Montecassino, rilievo di 516 metri di altitudine a sud di Roma, prega. Su un’altura, i soldati issano la bandiera polacca in segno di vittoria. I corvi si affacciano. Un bambino seduto sulle macerie parla con un soldato: «Perché?». È la mattina del 19 maggio 1944. E, dopo oltre cinque mesi, l’assedio di Montecassino è finito.

Quattro battaglie, due bombardamenti, 55.000 morti tra i soldati Alleati e 20.000 tra quelli tedeschi. La “Battaglia per Roma” è una delle più importanti e sanguinose del secondo conflitto mondiale. Gli Alleati ritenevano l’abbazia di Montecassino un covo di nazisti, un punto strategico di osservazione e un ponte verso la Roma occupata. Ma, soprattutto, gli Alleati volevano spostare l’attenzione dei tedeschi da Anzio a Montecassino per sbarcare a sorpresa sul litorale laziale. Eppure, gli sforzi americani, francesi e inglesi non bastarono. Nel gennaio 1944 il primo tentativo di sfondamento della linea difensiva terrestre dei tedeschi, la Gustav, ai piedi del monte laziale, fallì. Troppe perdite, dunque una nuova tattica: i bombardamenti.

A febbraio gli aerei americani distrussero parte dell’abbazia costruita nel 529 da San Benedetto. Il vescovo Diamare andò in udienza da Papa Pio XII: i 70.000 volumi della biblioteca, incluse opere di Cicerone, Orazio, Virgilio, Ovidio e Seneca, erano ormai in Vaticano per iniziativa del tenente colonnello nazista Julius Schlegel, ma era importante che la comunità restasse unita.

Soprattutto la mattina del 15 marzo, quando una pioggia di volantini cadde dal cielo su Montecassino: «Amici italiani, ATTENZIONE!» perché «è venuto il tempo in cui a malincuore siamo costretti a puntare le nostre armi contro il monastero». Firmato: la Quinta Armata. Paese e abbazia sono rasi al suolo da bombardamenti, artiglieria e fanteria americani.

Ma per liberare del tutto Montecassino e spianare la strada agli Alleati verso Roma, servì l’intervento – o il sacrificio – dei polacchi. A guidare l’operazione, il generale Władysław Anders. Che di guerre nella guerra ne aveva già fatte tante: nel 1939 Anders combatté contro i nazisti, durante l’occupazione della Polonia, nell’armata Modlin. Anders fu poi catturato e portato nel carcere della Lubjanka, sede del commissariato NKVD a Mosca, per aver combattuto contro i tedeschi e per aver rifiutato di passare informazioni ai sovietici.

Nel 1941, la svolta: grazie all’accordo Sikorski-Majski, il generale venne incaricato di formare un esercito polacco in territorio sovietico. Anders obbedì ma non accettò il trattamento brutale riservato ai suoi uomini dall’Urss. Così, il Secondo Corpo Polacco fuggì per combattere a fianco dei britannici in Iraq e Palestina. E, nel 1944, arrivò in Italia. A Montecassino.

È la mattina del 19 maggio 1944. Dopo oltre cinque mesi di assedio, sullo sfondo di un’abbazia millenaria bruciata e sacrificata più per errore che per strategia, la battaglia di Montecassino è finita. Ed ecco, le porte di Roma si aprono. L’Italia ringrazia lo sforzo della Polonia. Ma lo dimenticherà presto. Come il resto della comunità internazionale. San Benedetto no. Tantomeno il Cimitero Militare Polacco di Montecassino.

Limes – La Polonia Imperiale 2/23