«Ma a me cosa importa se i nazisti, anni e anni fa, hanno ucciso milioni di ebrei? Non voglio risultare cinico ma solo sincero perché è così che la penso: se quelle persone non fossero state uccise, la mia vita sarebbe cambiata? Non credo proprio. Questo non significa mancare di rispetto agli ebrei. Sì, il 27 gennaio so che qualcuno ricorda questo avvenimento. Ma a me non frega molto». La testimonianza di questo ragazzo, che preferisce mantenere l’anonimato, arriva a interviste quasi finite. E, oltre a rappresentare il senso di indifferenza che è in realtà di tanti, racchiude il senso della pagina di oggi.

È il 27 gennaio, Giornata della Memoria, ricorrenza internazionale. Che effetto ha tutto ciò sui giovani? Cosa sanno gli under 30 della Giornata della Memoria? E della Seconda guerra mondiale? Dove hanno appreso queste conoscenze? Scuola, casa, televisione, social? Secondo i giovani è importante ricordare questa data, perché sì o perché no? Cosa insegna la storia? Da qui parte la nostra ricerca, consapevoli che la sensibilità è sì soggettiva, però inevitabilmente legata all’educazione. E, dunque, consapevoli che la domanda centrale è questa: attraverso l’educazione ricevuta, si è in grado non solo di celebrare e ricordare un evento come questo, ma anche di conoscerlo, riflettervi sopra, comprenderlo appieno?

Da un liceo in provincia di Cuneo, Mattia, Leo e Giada non esitano a dire che «sì, certo, conosciamo bene la Giornata della Memoria. A scuola ci raccontano cosa è successo nei campi di concentramento. Abbiamo letto e apprezzato le testimonianze di Anna Frank e Primo Levi». Eppure, c’è qualcosa che rischia di tenerli lontani da questa storia: «Non riusciamo ad immaginare persone nei campi di concentramento della nostra età e con le nostre stesse emozioni. È difficile immedesimarsi in una situazione senza coetanei che siano punti di riferimento. Uno dei pochi è rappresentato da Etty Hillesum e dalle sue lettere».

Esperienze formative diverse generano percezioni altrettanto diverse della realtà. Ludovica, 26 anni, ricorda con emozione «il campo scuola in Germania all’ultimo anno di liceo. Prima di studiare fascismo e nazismo, abbiamo avuto modo di visitare i luoghi della storia. I musei e, soprattutto, un campo di concentramento. Sembrava che camminassimo tutti in punta di piedi per non mancare di rispetto alla storia. Tutto questo ci ha aiutato a studiare, dopo, con una sensibilità nuova. Non so se vale lo stesso per tutti, ma quando studio qualcosa sapendo di essere stata nei luoghi in cui quel qualcosa è avvenuto, mi sento coinvolta in prima persona». Esperienza mancante invece a sua sorella Camilla, 18 anni, all’ultimo anno di liceo, che racconta come «il nostro viaggio a Budapest, dove c’è uno dei ghetti nazisti più grandi d’Europa, è stato annullato perché alcuni studenti hanno occupato scuola. Con questa punizione, i professori pensano di fare un torto a noi. Ed è così. Però dimenticano di fare un torto anche al loro lavoro, al nostro ricordo della scuola e alla conoscenza della storia».

Tanti giovani evidenziano il ruolo dei social network dove post, stories e reels aiutano a conoscere i fondamentali in pochi minuti. C’è chi si è appassionato a questa giornata grazie ai film: «Schindler’s List, Bastardi senza gloria, La Vita è bella – riflette Giorgio – la potenza del cinema sta tutta qui: in quel cappotto rosso tra le immagini di una Cracovia in bianco e nero, nella ‘verità che è sempre la risposta giusta’. A me tutto ciò ha aiutato perché a scuola insegnano il corso degli eventi, ma non ci raccontano le persone comuni, le loro storie, che poi sono quelle di tutti noi».

Pensieri distanti da quello di Chiara, 21 anni, secondo cui invece «i film non restituiscono il contesto necessario a conoscere la storia che non è fatta solo di un evento. Per conoscerla è necessario studiare un intero contesto. Il prima e il dopo. Il film è un’istantanea. Utile, sì, ma non posso credere che le persone si appassionino a certi avvenimenti solo grazie a un film. Ci vuole altro». Cosa, però? Perché, se il pensiero è condivisibile, è pur vero che neanche la scuola è sempre in grado di “dare altro”. «Certo – ribatte Chiara – a scuola abbiamo programmi di studio vecchi. Non parliamo di storia contemporanea. Spesso chi arriva all’ultimo anno non va oltre la Seconda guerra mondiale». Ma allora è possibile parlare di Giornata della Memoria senza aver dedicato mesi, gite e lezioni a questo tema come anche all’Europa di quegli anni, a personaggi come Hitler, Mussolini, Stalin fino a Churchill e Roosevelt? «Secondo me no – risponde la giovane – così facendo, questa giornata resta una bella iniziativa che ricordiamo siccome ci dicono di farlo».

Di diversa opinione è Francesco, secondo cui «la scuola deve dare un’infarinatura generale. Sta a noi approfondire qualcosa in particolare. Ciò che mi dà più fastidio quando si parla dell’olocausto è il tifo da stadio. In classe ci si divide: chi paragona fascisti e nazisti di ieri alla destra di oggi, chi fa a gara per ricordare i crimini del comunismo… basta! È tutto così pietoso». «Io neanche ricordo come e perché è iniziata la Seconda guerra mondiale», «ma hanno sconfitto pure i russi alla fine?», «mi avrebbe fatto piacere conoscere meglio certe cose, ma la nostra educazione punta poco sulla storia», raccontano ragazzi da poco diplomati in un istituto informatico romano. Noemi, 11 anni, da un piccolo paese della Sardegna dice di non sapere molto su questa giornata perché «a scuola ne hanno parlato sempre in modo strano e abbiamo fatto solo disegni o visto qualche video. Faccio ciò che mi viene detto di fare dalla professoressa in quel giorno. So che è una cosa triste ma… non l’ho capita molto bene».

Se sono in pochi a citare il ruolo della famiglia, non mancano i riferimenti all’attualità, sorprendentemente anche da parte dei più piccoli. «Ricordare oggi non significa solo non commettere più errori simili – riflette Manuela, 12 anni, da Oristano – ma ci fa capire che non dovrebbero esistere distinzioni per il colore degli occhi, l’altezza o il colore della pelle. Eppure, oggi in Europa c’è una guerra. Noi non ne conosciamo bene i motivi, ma certamente non si combatte per amore verso il prossimo. E allora significa che di giorni come quello della Memoria non abbiamo capito niente». Anche Alessandro, 16 anni, lamenta di come «le persone dovrebbero capire che ricordare qualcosa una volta all’anno non serve a niente perché, se rifletto solo il 27 gennaio, come si fa a scuola e dappertutto, gli altri giorni potremmo sentirci autorizzati a discriminare, isolare o prendere in giro qualcuno che conosciamo».

Di fronte a testimonianze diverse emerge un punto in comune: a tutti manca qualcosa. A chi il contesto, a chi la sensibilità, a chi le basi. È normale, certo. Ma si può pensare a qualche soluzione che tenda al meglio? Forse sì. Si potrebbe unire i vari modi attraverso cui si conosce questo evento. Innanzitutto, arrivare all’ultimo anno di scuola secondaria con un anno intero da dedicare alla storia del Novecento. Ben vengano visite, viaggi, testimonianze dirette, incontri tra alunni e nonni dove emergono ricordi diversi. Poi la visione di film, che se guidata dai docenti può avere risultati migliori, documentari, lavori di gruppo, dibattiti fra studenti magari provenienti da Paesi diversi e da educazioni diverse. Integrare, riflettere, attualizzare, aiutare i giovani a ricollegare gli eventi e, quindi, ad avere visione. Nei licei come negli istituti. La storia non deve mai mancare. Consapevoli che, per fare ciò, ad avere una visione dev’essere, prima fra tutti, proprio la scuola.

L’Osservatore Romano – 27/1/2023