Scelte, viaggi, intrecci. Storie. Su #CantiereGiovani il 2023 inizia così: proponendo racconti diversi, lontani, forse in grado di aiutare e ispirare ragazzi che, concluso il proprio percorso scolastico o accademico, non sanno cosa fare. Università? E quale facoltà? Lavoro? E dove? Accontentarsi o inseguire le passioni? Andare a vivere da soli? Quanto costa? Come conciliare il tutto?

A volte la risposta non è immediata. Altre volte la risposta non è neanche qui, né tantomeno ora. Possono dunque venire in aiuto attività diverse, dal volontariato al servizio civile fino alle missioni, capaci di far meditare, di far cercare domande e trovare altre domande, di far infine incontrare la propria strada. Che sia nel paese d’origine o in una terra lontana, che sia nel volontariato o nel mondo del lavoro. Perché viaggiare apre alla conoscenza di sé attraverso l’altro. Rende consapevoli di essere strumento insufficiente e di realizzarsi pienamente solo nell’incontro con l’altro.

Ma cosa si va a fare quando si scelgono certe attività? Chi sono i giovani che decidono di partire per un periodo di tempo in posti sperduti? Perché lo fanno? Le storie di Giulio e Wellington, raccontate oggi su questa pagina, servono anche a rispondere a queste domande, a smentire luoghi comuni e allontanare timori che spesso possono crearsi nei giovani quando si pensa a situazioni simili. Giulio, 23 anni, partito per il servizio civile in una comunità terapeutica in Bolivia «in un momento in cui le idee sul futuro erano opache e la formazione accademica mi annoiava». Wellington, 30 anni, sacerdote missionario nelle comunità indigene del Brasile, dove il popolo ha «bisogno della presenza dei giovani per condividere la conoscenza delle diverse culture».

Entrambi consapevoli che, usando le parole di Papa Francesco, «l’evangelizzazione non si fa in poltrona» e che essa «con queste tre parole si struttura: alzati, accostati, parti dalla situazione». Vicinanza senza proselitismi. Consapevoli che tanto la Chiesa quanto noi stessi, per crescere, per attraversare crisi interiori, abbiamo bisogno di testimoniare di essere vivi. Di evangelizzare.

Intanto, io ho saltato

di Giulio Lazzarini

È quando Claudio ha 32 anni che l’associazione Comunità Papa Giovanni XXIII impatta con la sua vita: lui inciampato in un uso smodato delle droghe, è accolto in una delle tante comunità terapeutiche che l’associazione fondata da don Oreste Benzi ha aperto da anni in Romagna. Qui la svolta: Claudio rimette in ordine la sua vita e conosce i missionari dell’associazione, che nel frattempo ha espanso a livello internazionale le sue attività. Parte quindi come volontario per sei mesi a Yacuiba, nel sud della Bolivia, al confine con l’Argentina. L’esperienza lo entusiasma e decide di farne la sua vita. Guidato dalla fede e dall’attenzione verso gli altri, trascorrerà due anni a Salta, in Argentina, poi quattro anni di nuovo a Yacuiba, due ancora in Argentina, a Santa Fe, fino a stabilirsi a Camiri, in Bolivia, dove da sette anni è responsabile della comunità terapeutica “Renacer a la vida” con la moglie Silvia.

Ed è in questa struttura che, dal 2013, Claudio accoglie i cosiddetti “caschi bianchi”, i volontari in Servizio civile universale appartenenti ad una rete di enti di ispirazione cattolica. È qui che la storia di Claudio si intreccia con la mia. Decido di fare domanda per il Servizio Civile dopo la laurea triennale in Scienze politiche e relazioni internazionali, in un momento in cui le idee sul futuro sono ancora opache e la formazione accademica mi annoia. Dopo aver trascorso l’ultimo anno di università a Lisbona mi rendo infatti conto che la crescita personale necessita di un concetto di “formazione” più ampio. Scopro che vivere in un altro Paese, parlando un’altra lingua ed entrando in contatto con persone le cui storie sono distanti da quelle a cui sono abituato mi arricchisce enormemente. Complice l’incertezza su “che farò da grande” che sempre mi attanaglia, decido quindi di puntare su una esperienza “formativa” trasversale e volutamente difficile, in un posto lontano. Ecco come mi approccio al bando (annuale) del Servizio civile universale. Con il desiderio di allontanarmi il più possibile da ciò che conosco per cercare qualcosa che ancora non so, saltando un po’ nel vuoto e vedendo cosa succede nel frattempo. Ed ecco come, dopo procedure online, colloqui e periodi di preparazione mi ritrovo nella comunità terapeutica cattolica gestita da Claudio, nell’oriente boliviano.

La vita quotidiana mi colpisce subito per la sua lentezza. Nella comunità il tempo scorre pigramente, anche se accuratamente scandito dalle attività della casa. Il ritmo del lavoro, seppur costante, diminuisce di intensità rispetto a quello frenetico del “fuori”: l’ampia struttura si propone come un luogo conciliante e fermo, all’interno del quale gli accolti possono ricercare l’equilibrio perduto. È per questo che, da subito, la calma di questo posto mi destabilizza. Stride enormemente con la frenesia di Roma, dove sono nato e cresciuto, ed in generale con quella esuberanza di eventi, persone, sentimenti che da ventiduenne costituiva la mia vita.

Il lavoro non fatto per finire ma per fare; l’ampio spazio dedicato all’interiorità degli accolti; i momenti della casa costantemente condivisi; tutte caratteristiche con le quali sia io che chi sta facendo il percorso terapeutico dobbiamo fare i conti quotidianamente. E poi i rapporti con le persone e le loro storie, così lontane da ciò che conosco da pormi dubbi mai considerati prima. Sono spesso storie di nuclei familiari stravolti dall’abbandono o dal maltrattamento, che innescano un ciclo che riproduce le stesse dinamiche che i figli hanno subito sulla prole di questi ultimi. Sono storie come quelle di Fatima o Porfidio, di chi inizia a lavorare a 10-11 anni, privato a causa dell’indigenza dell’infanzia e dell’adolescenza, costretto ad assumersi responsabilità sproporzionate. E quindi storie di analfabetismo, di gravidanze insperate, di violenza e di fuga. È questa la “cornice” più eclatante che inquadra la mia vita in questo momento.

Vivere in una comunità terapeutica comporta specifiche regole e modalità di condotta, per tutelare chi sta qui in un cammino di cambiamento radicale, e quindi in un momento di profonda volubilità. Ma non è questa l’unica cornice: mi accorgo che altre più o meno grandi vi si sovrappongono, creando la complessità e la tridimensionalità del quadro. La struttura terapeutica si inquadra infatti nella società boliviana che, come tutte, ha sue consuetudini e peculiarità, ed in particolare in una piccola città di provincia, lontana da grandi centri e rurale: tutte coordinate che necessariamente richiedono una comprensione a sé, per contestualizzare le storie e le motivazioni dei singoli. Una sottocornice di quest’ultima è la lingua: la mia vita si svolge in spagnolo, che è quindi diventato lo strumento che mi permette di relazionarmi con l’esterno, comunicando e soprattutto ascoltando. E, come in qualunque parte del mondo, la lingua qui parlata non è pura e accademica, ma contaminata e contorta da un accento e un dialetto specifico, in questo caso quello del Chaco boliviano. Anche questa cornice richiede di essere padroneggiata, pena una frustrante incomunicabilità. A queste inquadrature si aggiunge la cornice del cattolicesimo, che permea lo spirito e la morale del percorso terapeutico.

E via via altre cornici, sempre più piccole, creano un disegno intricato, obbligandomi a comprenderle e padroneggiarle per creare una immagine il più possibile nitida di ciò che sto vivendo. Ed è questo sforzo costante di familiarizzare con stimoli inediti (di cui spesso non vedo neanche il significato) che, da quattro mesi, costituisce la mia quotidianità. E non so se tutto ciò mi porterà da qualche parte, se mi aiuterà a scegliere o a conoscermi, ad atterrare su qualche certezza. Io, intanto, ho saltato.

Qui si capisce che il Vangelo è per tutti

di Wellington Abreu

Tre ore di jeep lungo una strada dissestata e pantanosa. Poi sei ore su una voadeira, una barca di alluminio lunga nove metri con motore a poppa, sul Rio Negro, fiume dai lunghi canali d’acqua e dalla rigogliosa vegetazione tropicale che non fa distogliere lo sguardo dalla ricchezza della natura. Infine, dopo l’ennesima curva sul fiume, ecco il porticciolo. Gonçalo, l’autista yanomamö che guida la barca, annuncia l’arrivo: «Chegamos!» («arrivati!»).

Sono don Wellington Abreu, sacerdote salesiano di trent’anni. Sono nato nel nord del Brasile e sono stato ordinato sacerdote il 13 agosto 2022. Subito dopo sono stato mandato come missionario in una comunità indigena, la tribù yanomamö, in mezzo alla foresta amazzonica, al confine col Venezuela. A settembre ho finalmente messo piede su questa terra. Terra che rende forti e fieri, terra che dona dignità, terra per la quale gli indigeni ancora oggi si battono, difendono le loro tradizioni e i loro diritti, cacciano le loro prede, coltivano le loro terre, educano i figli, si alleano, fanno proposte ed attendono risposte. Ecco la mia nuova casa, la mia nuova famiglia, l’opportunità: Maturaca, comunità salesiana fondata nel 1956.

Qui faccio un po’ di tutto. Sono temporaneamente parroco. Sono direttore della scuola statale affidata a noi salesiani, che conta 510 allievi. Faccio anche il superiore religioso della comunità e della missione. Il lavoro è tanto, le sfide molte, la povertà è ovunque. Ma, allo stesso tempo, c’è anche tanta gioia, ricchezza, cultura, fraternità. Mi sento a casa. Accolto. Parte di loro. Scelto da loro, dalla madre natura, da Cristo, per stare in mezzo a loro. Certo, la lingua è una grossa sfida per chi arriva, ma piano piano si entra nel loro mondo e in questo modo particolare di pensare. Parlano abbastanza bene portoghese, ma per entrare nel loro cuore è importante imparare la lingua. Oggi sono molto felice perché ho già imparato tante parole e frasi che mi fanno avvicinare ancora più, principalmente grazie ai più piccoli.

Esserci. È questa la mia missione qui. Essere presente con loro e per loro. Accogliergli ogni giorno con gioia, con un sorriso stampato nel viso e con cuore paterno. Sì, hanno bisogno di cibo da mangiare e vestiti da indossare, ma hanno ancora più bisogno di averci, ascoltarci, di vivere la loro vita. Da quando sono arrivato mi sono domandato, «Signore perché io? Perché non quei missionari più esperti e saggi?». E il Signore mi risponde ogni giorno che in questo momento della storia Lui vuole che io sia disponibile per loro. Dargli le mie emozioni, il mio ardore gioviale, la mia gioventù e l’essere sacerdote per i più bisognosi, come voleva don Bosco.

Lavorare nella scuola significa essere presenti ogni giorno: mattina, pomeriggio e sera. Parlare con gli allievi, dialogare con i genitori, camminare insieme agli insegnanti e dare loro lo stile salesiano. Ogni giorno ho l’opportunità di trovare i bambini e ascoltarli. Di pomeriggio avviene lo stesso con i ragazzi. Di sera abbiamo anche le lezioni online per chi è in ritardo con gli studi e abbiamo inserito, con l’aiuto del confratello Emmanuel, missionario dalla Tanzania, il corso di inglese che funziona mattina e sera.

Nella sede della missione abbiamo quasi ogni giorno persone che chiedono aiuto con cibo. L’esperienza che facciamo è quella dello scambio. Per esempio: loro ci offrono un frutto e noi offriamo loro il riso, così li aiutiamo e togliamo quell’antica immagine di paternalismo, dove il missionario offre tutto, e allo stesso tempo togliamo la loro fame.

L’opera missionaria con le popolazioni indigene consiste in una presenza religiosa di qualità. Consiste nell’intreccio di culture, cioè nel portare la parola di Dio a persone che hanno la propria cultura e religione. Perciò è un’esperienza di incontro con l’altro e, a partire da questo, di servizio, sviluppo e azione evangelizzatrice. La grande sfida è creare un incontro di valori in grado di formare una Chiesa autoctona, cioè che emerge dall’incontro di due culture.

Lascio ai giovani il messaggio di non avere mai paura di dire “sì” al lavoro per e con i popoli indigeni: hanno bisogno della vostra presenza per condividere la conoscenza delle diverse culture. Venite, liberi dai pregiudizi, e scoprirete la ricchezza dei popoli indigeni. Possiamo vivere tutti in armonia se rispettiamo la cultura dell’altro e se sappiamo condividere i nostri saperi con l’umiltà del cuore. Non avendo paura di fare una nuova esperienza di condivisione culturale e di viverla con il Signore, nello spirito salesiano di don Bosco.

Ecco, Maturacá insegna che il Vangelo è nato per tutte le culture e che il seme del Verbo Incarnato è arrivato molto prima di noi, anzi c’è sempre stato. Qui imparo ogni giorno che non è mai il missionario che sceglie la missione, ma la missione che sceglie il missionario.

L’Osservatore Romano – 13/1/2022