Il distretto di Mitrovica è il simbolo della polveriera balcanica. Terra di confine, perché separa la parte settentrionale e orientale del Kosovo dal sud della Serbia. Terra di scontri, perché da 23 anni questi due Paesi se la contendono. Chi per annetterla, chi per proteggerla. Entrambi con un solo obiettivo: difendere la propria identità.
Da un lato, il Kosovo. Dichiaratosi indipendente nel 2008, riconosciuto da 98 dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite fra cui Stati Uniti, Regno Unito, Germania, Francia e Italia, e non da Serbia, Russia e Cina, oggi il Paese con capitale Pristina conta quasi due milioni di abitanti. La maggioranza della popolazione è albanese e di fede islamica, cui si aggiungono i bosgnacchi. C’è anche la minoranza serba di fede cristiano-ortodossa che costituisce la più grande comunità minoritaria in Kosovo. Dopo la secessione dalla Jugoslavia, favorita dall’intervento armato della Nato nel 1999, il governo di Pristina ha acquisito il controllo di Mitrovica. Tuttavia, proprio in questa regione vivono quasi tutti i serbi del Kosovo.
Dall’altro lato, dunque, c’è la Serbia. Che in Mitrovica riconosce la culla della sua identità. Qui si svolse, nel 1389, la battaglia della Piana dei Merli, evento in cui i serbi guidati dal principe Lazar Hrebeljanović sfidarono le truppe ottomane guidate dal sultano Murad I. Nonostante la sconfitta, la battaglia è celebrata nella storia serba perché simbolo dello sforzo di un popolo contro l’avanzata degli ottomani invasori.
Solo nel 1913, con la prima guerra balcanica, Grecia, Bulgaria, Serbia e Montenegro riuscirono a liberare il Kosovo dalla dominazione ottomana. Da quel momento sono iniziati gli scontri in Kosovo tra il nuovo Regno di serbi, croati e sloveni e la resistenza armata albanese. Attutita la rivalità durante gli anni della Jugoslavia di Tito, da quando Belgrado ha perso il controllo del Kosovo nel 1999, la questione kosovara, con l’area settentrionale del Paese è serbatoio di conflittualità.
Di qui le tensioni degli ultimi mesi. Ad agosto il governo del Kosovo ha promosso una legge in cui si prevede che, ai mezzi con targhe e documenti serbi in entrata sul territorio nazionale, sia fornita documentazione provvisoria recante la dicitura “Repubblica del Kosovo”. I serbi del Kosovo hanno protestato allestendo blocchi stradali. I funzionari pubblici di origine serba si sono dimessi. Pristina, ricordando la legge di Belgrado del 2011 con cui si autorizzavano i mezzi kosovari a entrare in territorio serbo solo con una targa serba temporanea al prezzo di 400 dinari, ha chiuso i valichi al confine con la Serbia. Ma le proteste della minoranza serba sono continuate. Il presidente serbo Aleksandar Vučić ha ordinato lo stato di massima allerta per le forze armate e ha spostato le truppe vicino al confine. Il Kosovo ha arrestato un ex poliziotto che avrebbe guidato attacchi contro la commissione elettorale e ha chiuso il principale valico di frontiera con la Serbia.
Dai recenti avvenimenti scaturiscono alcune riflessioni. La prima: la disputa tra Kosovo e Serbia rischia di degenerare. Dal 12 giugno 1999 è attiva la Kosovo Force a guida Nato. Ma nell’area balcanica sono evidenti gli interessi economici, culturali e politici di Russia e, recentemente, Cina (la cui ambasciata a Belgrado fu bombardata «per errore» dal contingente Nato nel 1999). Inoltre, i focolai nell’Adriatico si aggiungono a quelli nel Mediterraneo e potrebbero minare la (poca) stabilità del mare in cui si affacciano diversi Paesi europei. Cosa accadrebbe di fronte a un’escalation militare? La tensione sarebbe circoscritta o si allargherebbe ad altri contesti?
Fondamentale è anche l’aspetto religioso. Lo scorso 25 dicembre la diocesi serbo-ortodossa di Raška-Prizren ha accolto «con stupore e profondo disappunto la notizia che le autorità di Priština non hanno approvato la prevista visita di Sua Santità il Patriarca serbo-ortodosso in Kosovo e Metohija nel periodo tra il 26 e il 28 dicembre»: in una nota si legge che «si tratta di una decisione discriminatoria che conferma ancora una volta la minaccia ai diritti umani e religiosi del nostro popolo in questa regione».
Se la comunità internazionale sarà incapace di trovare una soluzione, si rischia che quello in Ucraina sia solo il primo di nuovi conflitti. In un’Europa in cui le guerre etniche, sociali e religiose, spesso silenziose e dimenticate, sono tutt’altro che poche.
L’Osservatore Romano – 29/12/2022