Discutere su quali siano le vie concrete e percorribili per ridare spazio al dialogo, quindi interrogarsi su come costruire un nuovo e più giusto sistema di relazioni internazionali. I tempi sono complessi, la minaccia è grave, lo sforzo dev’essere, per usare le parole di Robert Schuman, «creativo». Entro questi obiettivi si è tenuto oggi l’incontro «L’Europa e la guerra: dallo spirito di Helsinki alle prospettive di pace» all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, in collaborazione con la rivista di geopolitica Limes e i media vaticani. Presenti il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, l’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede Francesco di Nitto, il Direttore Editoriale dei Media vaticani Andrea Tornielli e il Direttore della Rivista Limes Lucio Caracciolo.

Accogliendo gli ospiti e salutando gli spettatori collegati in streaming grazie alla diretta curata da Vatican Media, l’ambasciatore di Nitto ha espresso i migliori auguri di un «pronto ristabilimento» al presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella. «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono»: da questo monito di San Giovanni Paolo II ha iniziato i suoi saluti Andrea Tornielli, ricordando poi la coincidenza secondo cui prima il presidente Mattarella, poi il cardinale Parolin e infine Papa Francesco «hanno fatto riferimento a quello spirito di collaborazione che alla metà degli anni Settanta contribuì alla distensione in Europa». «Questo incontro trae ispirazione dalle loro parole — ha proseguito Tornielli — non tanto per analizzare ciò che Helsinki è stato, ma per confrontarci con creatività e coraggio sulle possibilità di tornare al tavolo del negoziato. Come ci ricordava Robert Schuman, citato proprio dal Presidente Mattarella al Consiglio d’Europa, “la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali ai pericoli che la minacciano”».

Sforzarsi per salvaguardare, dunque. In particolare, il cardinale segretario di Stato Parolin ha evidenziato la necessità del «disarmo» come «unica risposta adeguata e risolutiva se vogliamo costruire un futuro di pace», ma anche il contributo dei giovani, «per non farci ripiegare su noi stessi, per non essere sordi al grido di pace che si leva da tante parti». Perché, ha continuato Parolin, «abbiamo bisogno di coraggio, di scommettere sulla pace e non sull’ineluttabilità della guerra; sul dialogo e sulla cooperazione, e non sulle minacce e sulle divisioni». I principi sanciti ad Helsinki rappresentano la bussola per orientarsi nella complessità: eguaglianza sovrana, non ricorso alla minaccia o all’uso della forza, integrità territoriale degli Stati, risoluzione pacifica delle controversie, non intervento negli affari interni, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, eguaglianza dei diritti ed autodeterminazione dei popoli e cooperazione fra gli Stati.

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Ma oggi? Come è cambiato il mondo dopo il 24 febbraio? Che corso hanno intrapreso quei principi? «In un cantiere di “edilizia diplomatica”, i pilastri di Helsinki sarebbero i primi a necessitare oggi di rigorosa “ristrutturazione”», ha ricordato il professor Matteo Luigi Napolitano nel suo inquadramento storico. In quale modo? Su queste basi si è svolta la seconda parte dell’incontro: una tavola rotonda, coordinata da Lucio Caracciolo, alla quale hanno partecipato il professor Andrea Riccardi, storico e Fondatore della Comunità di Sant’Egidio, Claudio Descalzi, Amministratore Delegato di ENI e la professoressa Monica Lugato, della Libera Università Maria SS. Assunta (Lumsa).

«Non è mai troppo presto per preparare la pace», ha esordito Caracciolo, «e se è vero che oggi, a differenza di Helsinki, abbiamo tanti fronti e molto frastagliati, è quindi vero che la guerra non si svolge solo in Ucraina, ma ha riflessi mondiali». Purtroppo, è intervenuto Andrea Riccardi, «lo spirito di Helsinki è perduto dietro le nostre spalle e ci ritroviamo in una prospettiva di guerra senza pace, col rischio che il conflitto si eternizzi come accade in Siria e altrove». In questo senso, paradossale è la «mancanza di una visione ma al tempo stesso la necessità di visione. Per superare la guerra dobbiamo dirci che tipo di Europa vogliamo». Quindi, ha aggiunto Riccardi, «per cominciare a guardare al futuro bisogna provare a congelare una guerra così intensa. È difficile cercare piste di pace senza visione e con una guerra che consuma le nostre energie. Un cessate il fuoco o almeno una tregua di Natale sarebbero rilevanti. Eppure, c’è sempre più la sensazione che, nelle nostre società occidentali, l’appoggio ufficiale all’Ucraina cresca ufficialmente ma, in realtà, stia diminuendo, ad esempio nell’opinione pubblica. L’Europa ha due sensibilità diverse sul suo futuro così come sul suo rapporto con la Russia: i Paesi dell’est la percepiscono come una minaccia totale. Ma gli altri? Se è diversa la valutazione della Russia, la risposta al conflitto non è eliminabile. Dalla risposta a certe domande dipendono innumerevoli scelte del futuro». Ricordando le conseguenze economiche della guerra, Caracciolo ha poi introdotto l’amministratore delegato di ENI: «Questa guerra ha colto l’Europa nel suo momento più debole — ha esordito Descalzi — essa è scarica di energia e piena di competitività interna. Ha dei tassi d’interesse in crescita e un’industria che, rispetto ai partner, paga otto volte la sua energia. Stiamo correndo il rischio di dimenticarci di questa guerra a causa delle sanzioni, correttissime, che però stanno indebolendo la struttura interna europea. L’Europa è sola. È la sola che sta subendo il peso delle sanzioni e che sta lottando davvero per il cambiamento climatico, una guerra da non dimenticare. Dall’altra parte, c’è l’Africa, che sta pagando altre conseguenze incredibili di questa guerra sul piano energetico ma soprattutto alimentare». Di fronte all’abitudine alla pace e al vuoto di leadership, la domanda che fare? emerge chiaramente: «Ci vogliono leader con visione e con spiritualità — ha ribadito Descalzi —, dobbiamo renderci conto della nostra debolezza, fare un atto di umiltà. La Grande Europa deve pensare di essere debole. Questo momento di consapevolezza ci deve far diventare visionari verso chi è più debole. Ad esempio, l’Africa. L’Africa e l’Europa sono due grandi entità simili. Siamo deboli. Ma loro lo sanno, noi no. E se riusciamo a creare solidarietà, aiutando sé stessa l’Europa aiuterà anche l’Africa».

Infine, la voce del diritto, affidata alla professoressa Lugato che ha esordito con una domanda: «L’Unione europea sta agendo davvero come attore di pace? Se, da un lato, come soggetto di diritto internazionale ha fermamente condannato l’invasione russa dell’Ucraina, dall’altro essa ha assunto iniziative che vanno in direzioni opposte. Mi riferisco alla proposta di istituire un tribunale internazionale per condannare la Russia e di definire la Russia come Stato terrorista». Parlando delle sensazioni che allontanano, l’idea di pace, Lugato ha citato «l’eliminazione della libertà di espressione» poiché «la conoscenza dei fatti, e non di una parte dei fatti, è fondamentale per arrivare alla soluzione dei conflitti». Inoltre, se è vero che la «legittima difesa è riconosciuta dal diritto internazionale come diritto naturale, esso ne stabilisce anche i limiti. E, soprattutto, assegna oggi una funzione specifica alla legittima difesa: lo Stato può legittimamente rispondere all’attacco ricevuto ma deve sempre prevalere il ripristino della pace e della legalità internazionale. Lugato ha identificato nel «rispetto del diritto internazionale» l’unica strada «per il rispetto della pace». A queste condizioni, ha detto Caracciolo, si può concludere come «se è vero che non c’è pace senza giustizia, è anche vero che non c’è giustizia senza pace».

L’Osservatore Romano – 13/12/2022