Inizialmente una decina, a poco a poco venti, improvvisamente più di trenta. Si dispongono in una sala del Pontificio Seminario Romano Maggiore. Hanno tra i dodici e i trent’anni. Poi escono in giardino. Vanno a conoscersi. India, Pakistan, Romania, Congo, Camerun, Senegal, Filippine, Cile. Sono tutti giovani di seconda generazione, nati in Italia, figli di migranti, affascinati quanto affaticati dalla propria doppia nazionalità. Quando la pioggia torna a battere su Roma in questo sabato di novembre, i ragazzi rientrano nella sala. «Vorrei chiedere a Dio di non arrendermi mai nel considerarmi uguale agli altri. Io non sono diverso», esordisce uno di loro.

Al Seminario Romano, nell’ambito del cammino sinodale diocesano, si è tenuto un incontro organizzato dal vescovo ausiliare di Roma don Benoni Ambarus, da don Pietro Guerini, Paola Aversa (Caritas di Roma) e Fabrizio Battistelli (università La Sapienza di Roma), promosso dalla Pastorale giovanile di Roma, dalla Caritas diocesana, dalla Migrantes e da Azione cattolica, Scout e Scalabriniani.

Obiettivo: dare voce al più ampio numero possibile di comunità cattoliche di lingua non italiana residenti in Italia (a Roma ce ne sono più di 150). Perché, come ribadisce il vescovo Ambarus (a cui i giovani si rivolgono confidenzialmente chiamandolo don Ben), «poter raggrupparne almeno una parte per un momento di conoscenza e di ascolto è essenziale per il nostro percorso sinodale». Modalità: far parlare i giovani domandando loro «Cosa vuoi dire a Dio?» e «Cosa vuoi dire alla Chiesa?». A regolare i lavori un’equipe di giovani animatori anch’essi immigrati: Ashik, Emmanuel, Veronica e Giuliana.

Non basta che questi ragazzi parlino un italiano perfetto o frequentino istituti nazionali. La loro esistenza viaggia spesso su un doppio binario: dentro e fuori casa, posso e non posso, tradizione e innovazione, famiglia e amici, restrizioni e libertà, Paese d’origine e Paese in cui si nasce. «Non ti dimenticare da dove vieni», si sentono dire spesso dai genitori. Cosa significa? Quanto pesa? Come ci si integra? Come sta affrontando l’Italia questo processo di trasformazione? Ecco quindi che condividere con questi ragazzi un momento del genere significa entrare davvero nel sinodo. Significa vivere un momento di Chiesa. Dove dalla diversità si passa all’unità. Non per magia, ma attraverso la parola.

«Allora, cosa chiedereste a Dio?» domanda Giuliana dopo aver finito di leggere il passo del Vangelo in cui Gesù guarisce il cieco Bartimeo. Sul pavimento sono disposte una serie di parole. Rabbia. Incontro. Ascolto. Forza. Umiltà. Coraggio. Fiducia. Perdono. Tristezza. Testimonianza. Condivisione. Ma nessuno risponde. È una domanda «grande, non difficile», azzarda qualcuno un po’ intimorito. Si fa coraggio Maali Atila, giovane vicepresidente del Coordinamento nazionale nuove generazioni italiane, venuta da Torino: «Io ho paura del dopo. So di essere una peccatrice. E, diciamola tutta, anche il Papa sa di esserlo. Tutti lo siamo. Perché nessuno può essere o può dare il cento per cento. Io ho paura del giudizio. Ho paura di essere giudicata da Dio per ciò che dico, faccio, per come mi comporto. Perciò questo chiederei a Dio: non giudicarmi».

«Come si fa a mantenere viva la nostra fede? – esordisce un giovane africano – questo chiederei a Dio. Perché la fede ci salva. La fede è la luce di Dio. Ma se non sappiamo cosa è la fede, siamo bloccati. Noi non dobbiamo credere e basta. Dobbiamo credere con fiducia. La fede si illumina e diventa viva con i fatti. Non solo andando in Chiesa. Se tutto ciò dev’essere al centro della nostra esistenza, chiederei a Dio quali azioni ci consiglia per mantenere viva la fede».

«Io scelgo la parola fiducia – rilancia un altro – chiederei a Dio di trovare la forza di fidarmi fino in fondo di Dio. Spesso non riesco». Chissà se, nella loro mente, stanno affiorando ricordi d’infanzia o esperienze familiari in cui Dio sembrava tutt’altro che vicino. «Io chiedo a Dio di darmi il coraggio di gettare il mantello. Vivere con un mantello significa nascondere le fragilità. Perciò vorrei chiedere a Dio di mostrarmi per ciò che sono». Sul concetto di fragilità insistono più ragazzi: «Non riesco ad accogliere le mie debolezze. Vivere una doppia cultura significa vivere una doppia identità. Significa non riuscire a dare e ad accogliere tutta me stessa. Per questo motivo chiedo a Dio la forza di amarmi come Lui mi ama. Perché so benissimo di non riuscire ad amarmi allo stesso modo. E, così, chiederei anche la forza di amare gli altri». «Per essere sé stessi, è importante la relazione. Per questo scelgo la parola condivisione – prosegue un altro giovane –, il contatto con le persone ci fa capire che non siamo soli. Che non dobbiamo arrenderci e buttarci giù se qualcuno ci considera diverso. Parlare, aprirsi, relazionarsi: non dobbiamo mai dimenticarci di farlo. E Dio può ricordarcelo».

«Non nascondiamocelo – prosegue un ragazzo che viene dall’India –, tutti noi abbiamo dei problemi. C’è sempre qualcosa di marcio al nostro interno che teniamo nascosto. Ma questa tristezza deve comunque portare alla speranza. Io non chiedo a Dio di pensare a me. Gli chiedo di pensare agli altri. Perché sono consapevole che se Dio pensa agli altri, allora pensa anche a me. Se Dio cura la tristezza agli altri, dona loro speranza. E questi la donano a me. Gli opposti esistono sempre. Non esiste felicità senza tristezza. E Dio ci fa capire il valore della tristezza per farci apprezzare l’importanza della felicità».

Finita la prima parte della conversazione, tutti si alzano, si mette da parte la tensione, si scambiano le sedie e ci si prepara alla seconda domanda: «Cosa vuoi dire alla Chiesa?»

«La Chiesa non è Papa Francesco – esordisce un giovane africano –, la Chiesa siamo noi. Ovunque va, il cattolico è rappresentato dalla Chiesa perché questa è la nostra identità. Tuttavia, vorrei chiedere alla Chiesa se essa si sente davvero universale. Non pensiamo a Paesi come l’Italia o la Francia. Pensiamo ai Paesi non democratici. Lì, un cattolico, può dirsi veramente rappresentato? Che ruolo ha la Chiesa in quei Paesi? Posso riconoscermi nella mia identità se rischio la vita per quella identità? Noi non dovremmo mai avere paura di essere stranieri perché la fiducia e la speranza che alimentano la nostra fede sono più forti di tutto il resto. Ma è davvero così? La Chiesa è universale? E ancora, la Chiesa aiuta a sentirsi universali?»

Accesa la fiamma, il dibattito entra nel vivo. «Non mi sento rappresentato dalle chiese locali in Italia – ammette una giovane dell’est Europa –, spesso sono costretta a spostarmi dal mio quartiere per andare a messa la domenica. I parrocchiani sanno che sono straniera e mi vedono come diversa. È impercettibile. Ma io lo so. Me ne accorgo da come mi guardano, da come mi parlano. Non è facile, né tantomeno comodo. Questo chiederei alla Chiesa: non ghettizzare la fede». «All’interno della Chiesa non dovrebbe esistere l’idea dello straniero – prosegue un altro – eppure, spesso i parroci personalizzano la funzione della messa e diventa difficile integrarvi tradizioni e culture diverse. Siamo sempre noi a doverci adattare. E se qualcuno prova a fare le letture o a raccogliere le offerte, veniamo visti male». «Tanti fedeli si sorprendono nel vederci lì, con loro, a pregare. Pensano che vogliamo soldi. È possibile?»

Integrazione e accettazione. Parole chiave non solo nell’atteggiamento ma anche nei riti. «Ci sono tanti modi di fare la messa nel mondo. Manifestando la gioia, cantando, ballando. Integrazione culturale. Perché i riti non si possono unire? Questo domanderei alla Chiesa: perché capita di non sentirsi a proprio agio nella chiesa? Perché capita di non sentirsi a proprio agio nella casa di Dio?»

L’Osservatore Romano – 2/12/2022