Prendersi del tempo per pianificare. Non seguire il primo impulso. Proporre a chi decide una varietà di opzioni. Mantenere il controllo della società. Prestare attenzione all’opinione pubblica mondiale. Non umiliare il proprio avversario, ma lasciargli una via d’uscita. Sono alcuni degli insegnamenti che Robert Kennedy, ministro della Giustizia negli Stati Uniti dal 1961 al 1963, fratello del presidente John Fitzgerald Kennedy, consigliere del governo durante la crisi dei missili di Cuba, ha tratto da quei tredici giorni di ottobre 1962 che avrebbero potuto cambiare la storia.
Consenso e stabilità, calcolo e fermezza, flessibilità. Quando si decide, quando si comunica. Perché se è vero che una crisi diplomatica è una questione di e tra Stati, è altrettanto vero che le regole del gioco sono dettate da fattori umani, sociali, culturali. Considerati imprevedibili, scanditi in realtà dalla storia, consultabili sui libri, saggi o romanzi che siano.
Le parole raccontano identità. E dalla crisi cubana tutte le identità emergono, cambiano, perdono, vincono.
Perché Cuba?
Se gli anni sono quelli della Guerra Fredda, il luogo della tensione è insolito. Ed è questa la prima novità della crisi in questione: la lontananza dalla cortina di ferro. La condizione geografica sovietica o quantomeno europea, considerata imprescindibile nelle crisi tra blocco americano e blocco sovietico degli anni Cinquanta, non è più imperativa. Già parzialmente avvenuto con la guerra di Corea del 1950, a Cuba la novità si consolida e stravolge gli Stati Uniti: nel “cortile di casa” si affacciano un Paese comunista e il nemico sovietico.
Non si tratta di eventi casuali, ma dettati dalla storia di Cuba. Un’isola indipendente dal 1898 con un’influenza statunitense sul piano politico, la base navale di Guantanamo, ed economico, nel 1959 gli americani controllavano il 40 per cento della produzione di zucchero che costituiva l’80 per cento delle esportazioni cubane. La povertà generata da disoccupazione e scarse retribuzioni nel settore agricolo incontra il disagio sociale: ritorna la dittatura del colonnello Batista e i dissidenti, in maggioranza studenti, guidati dal giovane avvocato Fidel Castro, vengono repressi.
Nel 1959 l’esercito ribelle riesce a entrare a L’Avana. Castro avvia il nuovo regime. Il riconoscimento degli Stati Uniti verso il governo è immediato, ma Castro vuole sottrarsi all’influenza economica americana. Riforma agraria e divisione delle terre per iniziare. Fuori gli imprenditori americani e i moderati, accentramento del potere nelle mani del fratello Raul e di Che Guevara a seguire. Castro autorizza l’esistenza del partito comunista cubano. E l’opinione pubblica americana prende le distanze: il presidente Dwight Eisenhower non incontra Castro nel suo viaggio a Washington, il comandante dell’esercito cubano Diaz Lanz fugge dall’isola e denuncia all’Fbi un’infiltrazione comunista nelle forze armate de L’Avana, quindi Cuba accusa Washington di effettuare raid sugli aeroporti del Paese.
Da locale a globale
Gli Stati Uniti credono che le pressioni economiche possano provocare malcontento e insurrezioni contro il nuovo regime. Ma sottovalutano la forza delle ideologie, determinanti soprattutto nei Paesi giovani e instabili. Washington realizza improvvisamente di conoscere poco il suo stesso continente. Causa di forza maggiore, perché scontri e interessi globali hanno sempre interessato l’Europa e l’Estremo Oriente. Ma conseguenze svantaggiose: in Centro e Sud America è imprescindibile conoscere e dialogare non solo con le istituzioni, ma soprattutto col popolo. Nazionalismo e popolarità di Castro crescono: chi altro ha mai sfidato gli Stati Uniti direttamente in America?
Caos statunitense e cellula socialista a L’Avana sono un assist perfetto per l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov. Il 13 febbraio 1960 viene firmato un nuovo accordo commerciale tra L’Avana e Mosca per l’acquisto di 5 milioni di tonnellate di zucchero cubano nei successivi cinque anni e la concessione di un credito di 100 milioni di dollari. Nel frattempo, Cuba confisca le imprese statunitensi. Washington risponde bloccando l’ingresso dei prodotti cubani, iniziando ad addestrare militari cubani ostili a Castro, sospendendo ogni aiuto finanziario verso l’isola. In pochi mesi l’alleanza tra Cuba e l’Unione Sovietica si trasforma: Mosca proclama la sua amicizia verso L’Avana, parla di difesa del territorio cubano in caso di minaccia, mentre Che Guevara presenta Cuba come parte del campo socialista e Castro si definisce comunista.
Anche il neopresidente Kennedy, salito al potere il 21 gennaio 1961, definisce presto il suo piano per Cuba: monitorare l’isola, isolarla, nel peggiore dei casi invaderla. Perché abbandonare Cuba significa tradire il proprio ruolo, rassegnarsi al comunismo. In patria, nel proprio continente, nel mondo. Il pericolo sovietico definisce l’identità americana. L’instabilità nel continente americano rafforza il ruolo mondiale di Mosca. L’esistenza del nemico: fattore paradossalmente esistenziale nella battaglia geopolitica. Ideologia contro ideologia. Senza l’uno non c’è l’altro.
In tutto ciò, il ruolo dell’intelligence si rafforza. La Marina statunitense effettua ricognizioni aeree verso tutte le navi in entrata e in uscita da Cuba. Washington ottiene i discorsi di Castro, interviste, dibattiti con gli studenti, interrogatori dei prigionieri. Realizza una copertura fotografica e una ricognizione visiva grazie agli U-2. Eppure, Washington sbaglia. Non riesce a declinare i dati in informazioni perché conosce poco il nemico. Il fattore umano. Cia e Pentagono sono sicuri che i contadini della campagna rurale cubana siano ostili a Castro e favorevoli a un intervento armato degli esuli cubani. Comunicano le informazioni a Kennedy. E il presidente decide: costituire un Consiglio rivoluzionario cubano, aiutare gli esuli a sbarcare nell’isola per soverchiare Castro senza far intervenire direttamente le forze statunitensi, instaurare un regime liberal democratico.
Piano partorito, calcolo sbagliato, disfatta. Lo sbarco nella Baia dei Porci, datato 17 aprile 1962, fallisce: i contadini cubani si dimostrano vicini al regime comunista, gli esuli sbarcati sulle spiagge vengono catturati, Washington rifiuta di intervenire in loro aiuto, la figura di Castro si rafforza, quella statunitense entra in crisi. A maggio Cuba adotta una costituzione definita socialista, i gruppi politici vengono uniti in un partito unico di sinistra e a dicembre aderisce al sistema comunista.
Washington cambia tattica. E non può rafforzarla perché l’opinione pubblica non la seguirebbe: da un sondaggio della società Gallup emerge che il 61 per cento degli intervistati è contrario all’intervento armato contro Cuba perché scatenerebbe una guerra mondiale con l’Urss. Il controllo della società. Kennedy tenta di isolare Cuba riunendo il continente americano nell’Alleanza per il progresso, in cui si promettono a Paesi come Argentina, Brasile, Cile e Messico risorse e fondi pubblici. Cuba viene cacciata dall’Organizzazione degli Stati americani.
Isolato, Castro nel 1962 vola a Mosca insieme a Che Guevara per ottenere un aiuto più efficace da parte dell’Urss. Krusciov accetta. In segreto invia tecnici e materiali per preparare basi di missili in grado di contrastare un attacco americano. Iniziati i movimenti sospetti, l’intelligence statunitense informa il presidente. È il 16 ottobre 1962. E il mondo non ne saprà nulla fino all’annuncio pubblico di Kennedy datato 22 ottobre.
Che fare?
Per tredici giorni la diplomazia si rinchiude a pensare. È in cerca di interpretazioni, decisioni. Capire sé stessi, capire il nemico. Capire la crisi. Come agire. In poche ore. Perché le navi sovietiche coi missili sono partite e stanno avanzando. Arrivano anche le parole di attori esterni come quelle della Santa Sede guidata al tempo da Papa Giovanni XXIII. Che fare? Bloccare le navi sovietiche? Invadere Cuba? La probabilità di una risposta da parte dei sovietici è altissima. Il rischio della guerra atomica è concreto. Come reagirebbe l’opinione pubblica mondiale? Si dovrebbe contrattare? Se sì, come? E concedendo cosa? Come salvare la faccia?
E dall’altro lato, i sovietici sono veramente intenzionati a sostenere Cuba, un’isola del continente americano senza alcun valore strategico per Mosca? Gli Stati Uniti sono la «tigre di carta» di cui parla la Cina di Mao Zedong? Fino a dove può spingersi Krusciov? Bluff o realtà? Nel libro La Guerra Fredda, John Lewis Gaddis mette in dubbio che Mosca avesse una tattica perché «cosa esattamente Krusciov intendesse fare con i suoi missili a Cuba non è ancora chiaro», «non poteva certo aspettarsi che gli americani non reagissero». Piuttosto, prosegue Gaddis, «Krusciov consentì al proprio romanticismo ideologico di prevalere sulle sue capacità di analisi strategica» perché «era così coinvolto emotivamente nella rivoluzione castrista che, per proteggerla, mise a rischio i risultati della stessa rivoluzione sovietica».
Gli Stati Uniti decidono di non decidere. A dettare le sorti del conflitto saranno i sovietici. Vantaggio non da poco, soprattutto per chi dovrà trovare il responsabile di un’eventuale escalation. Informati gli Alleati, la squadra di Washington comunica l’ultimatum: chiede ai sovietici ritirare le armi. Parlando in televisione, il 22 ottobre alle 7 di sera Kennedy inquadra la questione cubana come «minaccia esplicita contro la pace e la sicurezza di tutte le Americhe» e «mutamento dello status quo deliberatamente provocatorio e ingiustificato». «Noi non correremo prematuramente e senza necessità i rischi di una guerra mondiale nella quale i frutti della vittoria sarebbero cenere nella nostra bocca – dice Kennedy – ma non arretreremo di fronte a questo rischio in qualsiasi momento sarà necessario affrontarlo».
Krusciov diventa consapevole di non potersi più assumere un rischio simile. Dunque, ordina alle navi sovietiche di tornare indietro, ritira i missili sotto il controllo delle Nazioni Unite, in cambio chiede agli Stati Uniti di rispettare la sovranità di Cuba. Proposta accettata: il 28 ottobre Krusciov conferma come i «motivi che ci hanno spinto ad accordare questo aiuto scompaiono».
La crisi è risolta. I missili non arriveranno mai a Cuba. Ma quei tredici giorni segneranno il momento di tensione più alto dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Sessant’anni dopo cosa resta? Fino a un anno fa, sembrava tutto. Il successo della diplomazia, l’idea della stabilità, la necessità del compromesso. Salto temporale. Il mondo dopo il 24 febbraio 2022. Oggi cosa resta? Il manuale per gestire le crisi internazionali è la storia.
L’Osservatore Romano – 29/10/2022