La quota di università statunitensi presenti tra le prime cento università del mondo è in calo, mentre è in aumento la quota di università dell’Asia orientale e del Medio Oriente. Il dato emerge dalla diciannovesima edizione del Times Higher Education World University Rankings, pubblicata lo scorso 12 ottobre. Fattore educativo, logiche culturali, conseguenze (anche) geopolitiche. L’asse del mondo sembra spostarsi. Senza una direzione precisa, ma (in)seguendo la centralità.

La Corea del Sud occupa tre posizioni nella classifica mondiale delle prime cento università. Interessante è anche la ristrutturazione del sistema universitario sudcoreano a causa del crollo dei tassi di natalità: se tra il 2015 e il 2018 il governo aveva imposto di ridurre le quote di ammissione a università in aree remote del Paese, recentemente questi cambiamenti hanno interessato anche altri luoghi come la capitale Seoul. Meno fruitori uguale più qualità? O vale il contrario?

Per approfondire, nella logica del confronto tra modelli accademici che #CantiereGiovani sta proponendo, «L’Osservatore Romano» ha parlato con Joon Hyung Shim, professore presso la School of Mechanical Engineering della Korea University: «In Corea del Sud l’ingresso nelle università è considerato come la porta d’accesso al successo sociale. L’educazione dei genitori e delle scuole è orientata soprattutto alla scelta di una buona università. È un fenomeno comune anche a molti altri Paesi asiatici. Di conseguenza, le università competono tra loro per attrarre studenti eccellenti e sviluppare talenti socialmente importanti. Per arrivare a ciò, le università sono costantemente impegnate a migliorare le proprie infrastrutture per migliorare istruzione e ricerca. E anche la comunità diventa pienamente coinvolta nel seguire progressi e sviluppi delle università».

Competizione, coinvolgimento, eccellenze. Tre fattori chiave di una società in apertura e in espansione, sicuramente in accelerazione, in grado di generare non solo buoni studenti, ma anche buoni cittadini. Quando si parla di istruzione, spesso nella Repubblica di Corea si dice che è importante fornire agli studenti delle scuole competenze necessarie affinché diventino leader nella società dei prossimi anni. Nulla di facile, visto che, oltre a educare, è richiesto anche di anticipare le tendenze del futuro. E la società coreana sembra puntare sulle facoltà scientifiche: dai sondaggi in cui si chiede agli studenti quale lavoro desiderano svolgere, i primi tre posti sono tutti per lo sviluppatore di software, l’ingegnere informatico, l’esperto di realtà virtuale avanzata. Effetto dell’abitudine ai servizi online, di una rete internet efficiente in quasi tutto il Paese, dello sviluppo di industrie tecnologiche anche a livello mondiale e di buone retribuzioni.

Ma come funziona il processo di orientamento universitario in Corea? «Molte università coreane hanno istituito e promosso programmi di stage e ricerca aziendale — risponde il professor Shim —, l’obiettivo di questi sforzi è ridurre al minimo l’infelicità che deriva da un lavoro non adatto a sé stessi. Trovare ciò che agli studenti piace fare è molto importante. Tuttavia, spesso è difficile capire se un certo lavoro è adatto finché non lo si sperimenta davvero. La nostra formazione universitaria offre quindi questa possibilità: fare esperienze lavorative diverse». Niente di diverso da ciò che avviene nelle università di tanti altri Paesi. Cambia l’obiettivo, però, dei tirocini: non farlo perché va fatto, ma farlo per capire se quel lavoro «mi piace», se è «adatto a me».

C’è poi il lifelong learning, il processo di apprendimento continuo anche in età adulta, già accennato su queste pagine, su cui le università coreane puntano molto perché, aggiunge Shim, «se l’istruzione universitaria si concentrasse solo sugli studenti, le opportunità per le persone di cambiare il proprio percorso professionale e di perseguire una vita migliore dopo la laurea sarebbero molto limitate». Anche qui, va ribadito, niente di particolarmente innovativo rispetto a ciò che avviene altrove: ma se spesso capita di stupirsi nel vedere adulti che frequentano l’università, in alcuni Paesi asiatici ciò sembra essere normale. L’innovazione insomma non è nel sistema, ma nel modo di pensare.

Diventare leader della società del futuro, si diceva. Possibile, ma se si punta tutto su facoltà scientifiche, non c’è il rischio di tralasciare quella visione d’insieme necessaria per amministrare e prevedere il raggio d’azione delle proprie scelte? «Chi sceglie ingegneria non deve mai dimenticare certi valori sociali — sottolinea il professor Shim —, perché questi determinano la direzione dello sviluppo tecnologico. Le tecnologie rispettose dell’ambiente che sviluppano veicoli elettrici e utilizzano l’elettricità solare possono essere considerate irragionevoli da un punto di vista economico, perché richiedono un costo elevato rispetto alla loro efficacia. Ma se non proteggiamo l’ambiente, i nostri vicini e le generazioni future ne soffriranno. Senza altruismo, i progressi tecnologici andrebbero in una direzione sbagliata. L’alfabetizzazione umanistica è fondamentale per gli ingegneri affinché sviluppino valori sociali sani. E l’impegno delle università ai fini di una buona formazione umanistica dev’essere costante».

L’Osservatore Romano – 14/10/2022