C’è un’importante novità nella ripresa degli scontri tra Armenia e Azerbaijan verificatisi dopo la mezzanotte dello scorso 13 settembre: i combattimenti non sono avvenuti nel Nagorno Karabakh, regione per anni contesa da armeni e azeri. Questa volta i due Paesi si sono colpiti al confine. Secondo le prime ricostruzioni e dichiarazioni ufficiali, l’Azerbaijan avrebbe effettuato attacchi mirati volti a distruggere le posizioni armene che, recentemente, avrebbero aperto il fuoco ed effettuato «provocazioni su larga scala».
Ma è dal luogo in cui i due Paesi hanno combattuto, cioè il “corridoio Zangezur”, che sembra emergere la posta in gioco: la repubblica autonoma di Nahçıvan. Essa, pur facendo parte dell’Azerbaijan, ne è distaccata geograficamente perché circondata da Turchia, Iran e Armenia. Dopo l’ultimo conflitto in Nagorno Karabakh, gli accordi per il cessate il fuoco firmati il 10 novembre 2020 da Russia, Armenia e Azerbaijan prevedono che gli azeri costruiscano un corridoio in grado di connettere la capitale Baku all’exclave di Nahçıvan, appunto il “corridoio Zangezur”, attraverso l’Armenia meridionale. Ma un problema è rimasto irrisolto: a chi dev’essere affidata la gestione di questo territorio di mezzo? Gli armeni dicono che spetta a loro, gli azeri rispondono il contrario.
Di fronte all’immobilismo, le armi. Secondo il primo ministro armeno Nikol Pashinian, nella sola notte del 13 settembre il suo esercito ha perso 105 militari, mentre il ministero della Difesa azerbaigiano ha detto di averne persi 50. Combattimenti così violenti ed estesi tra i due Paesi non avvenivano dal 2020. Nonostante la dichiarazione di cessate il fuoco diffusa il mattino seguente, una tregua vera e propria sembra essere stata raggiunta solo giovedì.
Il Nagorno Karabakh, seppur non militarmente coinvolto negli scontri di pochi giorni fa, resta centrale per comprendere lo scontro in corso. In meno di trent’anni ha subìto due sorti totalmente diverse: col crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 e la prima guerra tra armeni e azeri per il controllo della regione, terminata nel 1994, prima l’Armenia ne ha preso totale possesso avviando processi demografici e di toponomastica che, nel 2017, hanno portato alla nascita della Repubblica dell’Artsakh, ma poi nel 2020 l’Azerbaijan lo ha riconquistato con una seconda guerra durata solo 44 giorni. Nel mezzo, un milione di sfollati solo col primo conflitto, 90 mila nelle sei settimane di combattimenti nel 2020, almeno 25mila soldati uccisi negli anni Novanta e 144 civili morti nel 2020. Scenari di violenza e rivincita poco compresi, mai placati, ignorati dal resto del mondo.
Come in altri casi, dietro tutto ciò si nascondono poi le incomprensioni della storia contemporanea. Nel 1922 l’Unione Sovietica di Iosif Stalin rovescia la decisione di annettere il Nagorno Karabakh alla Repubblica socialista sovietica di Armenia, nonostante gli armeni rappresentassero la maggioranza della popolazione a seguito della conquista del territorio da parte dell’Impero Russo, avvenuta nel diciottesimo secolo. La regione è posta sotto il controllo della Repubblica socialista sovietica dell’Azerbaijan con uno status di «ampia autonomia regionale». Ma tra il 1926 e il 1989 gli armeni continuano a rappresentare oltre il 70 per cento della popolazione mentre gli azeri arrivano a costituirne almeno il 25 per cento.
Ecco che, se si pensa al significato degli eventi e al genocidio subito nel 1915, si comprende come per l’Armenia la difesa di questo territorio prevalentemente montuoso significhi difesa di identità e indipendenza dalle pressioni della storia. Dall’altro lato, una potenza emergente che, grazie al patrimonio energetico di petrolio e gas, negli anni Duemila riesce a incrementare le spese negli armamenti e punta a obiettivi identitari quanto strategici. Non c’è accordo internazionale che sembra reggere di fronte a sentimenti di appartenenza così forti. Anche se, tra Armenia e Azerbaijan, si sono poste Mosca e Ankara.
Il ruolo della Russia è da sempre centrale. Secondo gli accordi del 2020, il Cremlino ha avviato una missione che prevede il dispiegamento di soldati in Karabakh fino al 2025. La missione può essere rinnovata per altri cinque anni, ma può anche essere terminata se una delle tre parti dovesse ritirare il proprio consenso entro sei mesi dalla scadenza. Con una Russia sempre più impegnata nella guerra in Ucraina, come muterà il suo atteggiamento nel Nagorno Karabakh? Il numero delle truppe è già diminuito, passando da 1960 a 1600, ma dopo gli scontri del 13 settembre il primo ministro armeno Pashinyan non ha mancato di chiedere e ottenere il sostegno russo per un cessate il fuoco. Tutto ciò potrebbe facilitare l’innescarsi di scontri in grado di far precipitare la situazione? Che margine di manovra c’è per attori come l’Unione europea?
Proprio la guerra in Ucraina ha spinto diversi Paesi europei, fra cui l’Italia, a cercare gas in Azerbaijan: il ministro dell’Energia azero Parviz Shahbazov ha affermato che le esportazioni di gas naturale verso l’Europa nei primi otto mesi del 2022 ammontano a 7,3 miliardi di metri cubi, in aumento del 23 per cento rispetto al 2021. Il trasporto dell’energia avviene in collaborazione con la Turchia, altro attore importante nello scontro. Quanto influirà il ruolo dell’economia nella ricerca della stabilità regionale e nel rafforzamento degli schieramenti?
In quella che la rivista americana Foreign Affairs ha definito «una delle controversie più tragiche e persistenti in Europa» e «uno degli ultimi affari incompiuti della fine della prima guerra mondiale, ancora combattuto secondo le regole a somma zero del secolo scorso», gli elementi cardine della geopolitica ci sono tutti. E riguardano tutti. Anche quel resto del mondo disinteressato alle sorti di questo piccolo ma complesso territorio.
L’Osservatore Romano – 19/9/2022