«Il fatto di essere qui riuniti a Washington per la firma del Patto Atlantico rispecchia perfettamente la natura della nostra comune preoccupazione: lo schiacciante potenziale militare dell’Unione Sovietica». Sono queste le parole pronunciate da Harry Truman, trentatreesimo presidente degli Stati Uniti, all’inizio di una conversazione riservata assieme ai vertici politico-militari degli Usa e ai ministri degli Esteri dei Paesi fondatori dell’Alleanza Atlantica[1] tenutasi il 3 aprile 1949.

Il giorno dopo, dodici Stati (Belgio, Canada, Danimarca, Francia, Islanda, Italia, Lussemburgo, Norvegia[2], Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito, Stati Uniti) firmarono il Trattato Atlantico dando vita alla NATO, istituzione militare, politica, difensiva ancora centrale nelle relazioni internazionali contemporanee.

Quando la «minaccia sovietica» è stata abbattuta e il blocco occidentale ha prevalso, l’Alleanza Atlantica non ha cessato di esistere, ma ha mutato la sua natura, espanso i propri confini, intensificato le proprie attività, aggiornato gli obiettivi. Fino a dove? Perché? Come? Per rispondere, occorre riavvolgere il nastro, chiarire i fatti, ascoltare i protagonisti, ma soprattutto porsi domande. E arrivare fino all’oggi.

La NATO tra il 1949 e il 1989

Un trattato[3], quattordici articoli, due possibili e alternative soluzioni per la lotta a quello che nel secondo dopoguerra era identificato come principale nemico dall’Occidente: battere Mosca attraverso un vasto programma di riarmo e la soppressione del comunismo in Europa, oppure sviluppare una politica comune basata su valori democratici e restare in allerta in una “guerra” che doveva necessariamente restare fredda. Vista l’impraticabilità della prima opzione, contraria ai principi delle Nazioni Unite, ma soprattutto basata su un programma di riarmo difficile da far approvare ai popoli stremati dal conflitto e ai Paesi la cui potenza militare era praticamente inesistente, si optò per la seconda soluzione.

E si fece leva su una serie di obiettivi strategici, sottolineati in più occasioni da Dean Acheson e Louis Johnson, segretario di Stato e segretario alla Difesa del governo Truman: la Germania, dove bisognava «adottare una comune politica di sostegno alla rinascita economica, accelerando lo sviluppo di istituzioni democratiche e combattendo attivamente la sovversione comunista» perché «non vi è dubbio che l’Urss si ponga come obiettivo principale l’assorbimento della Germania nell’orbita sovietica»; il Giappone, «strategico perché posto proprio di fronte all’Unione Sovietica», ma che «si trova nel pieno di una rivoluzione sociale e se non siamo in grado di risolvere i suoi problemi economici, rischiamo non soltanto la rinascita di un sentimento antiamericano ma anche un’inevitabile attrazione verso i mercati dell’Asia settentrionale»; infine, il problema coloniale, la «necessità di stabilire buone relazioni con i nuovi Stati sorti in Asia per prevenire il loro avvicinamento all’Urss» perché «anche questa è un’area critica dove crediamo che le potenze coloniali debbano subordinare gli interessi più immediati al problema principale di fronteggiare il comunismo».

Gli anni che vanno dal 1950 al 1989 furono segnati da eventi e politiche fondamentali per gli Stati Uniti come per l’intera NATO:

  • La prima fase di allargamento, avviata nel 1952 con l’adesione di Grecia e Turchia in base all’articolo 10 del Trattato, secondo cui «le parti possono, con accordo unanime, invitare a aderire a questo Trattato ogni altro Stato europeo in grado di favorire lo sviluppo dei principi del presente Trattato e di contribuire alla sicurezza della regione dell’Atlantico settentrionale». Un’adesione ben più strategica fu quella della Germania, avvenuta nel 1955. Dopo la guerra di Corea e il supporto dei sovietici ai comunisti coreani, Washington era sempre più convinta di un possibile attacco sovietico nella Germania occidentale. La Casa Bianca chiese a gran voce un riarmo tedesco. Gli Stati europei, in primis la Francia, rifiutarono la proposta d’oltreoceano. E dopo aver fondato nel 1951 la Comunità Europea del carbone e dell’acciaio, l’anno successivo proposero l’istituzione della Comunità europea di difesa, che avrebbe permesso il riarmo tedesco ma lo avrebbe posto sotto il controllo di un esercito comune europeo. Il progetto, seppur firmato, non fu mai ratificato. Su spinta del cancelliere tedesco Konrad Adenauer e del neopresidente statunitense Dwight Eisenhower, una soluzione si trovò: nel 1955 la Germania occidentale aderì alla NATO e nel 1957 all’Unione europea occidentale. Sotto il controllo e l’approvazione dell’esercito degli Alleati, la Repubblica Federale tedesca, forte anche di un’ottima ripresa economica, poté iniziare a riarmarsi.
  • La reazione dell’Unione Sovietica non si fece attendere: nel 1955 Mosca diede vita al Patto di Varsavia, cioè un patto difensivo e di cooperazione, ricalcato sul Patto atlantico, tra otto Paesi (Albania, Bulgaria, Cecoslovacchia, Germania Orientale, Polonia, Romania, Ungheria, Urss). Seguirono anni di tensione,alimentati dal mancato riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte degli occidentali e poi dalla crisi dei missili di Cuba. Nel frattempo, la solidità dell’alleanza comunista fu minata proprio dal rapporto complicato con Pechino[4], dalla rivoluzione di palazzo a danno del presidente Nikita Krusciov, così come dalle rivoluzioni civili in Polonia, Ungheria e poi Cecoslovacchia. Tra gli anni ’60 e ’70 pure l’Alleanza Atlantica attraversò periodi di crisi: nel Congresso americano si discuteva spesso dell’equa distribuzione delle spese militari tra Stati Uniti ed Europa, sostenute in larghissima parte da Washington, mentre in Francia maturavano sentimenti antiamericani, culminati con la temporanea uscita della Francia dall’organizzazione militare della NATO, conclusi con la crisi del franco e le dimissioni del generale Charles de Gaulle[5].
  • Seguirono gli anni della distensione, promossa dal presidente americano Richard Nixon e dal suo segretario di Stato, Henry Kissinger. Una politica caratterizzata dal tentativo di trovare un equilibrio tra potenze e dalla spartizione dei territori d’interesse, che portò al riconoscimento della Cina di Deng Xiaoping, all’ostpolitik tedesca e agli accordi SALT tra Washington e Mosca per la limitazione delle armi strategiche. Ma la parentesi fu breve: con la crisi economica degli anni ’70, gli scandali interni alla politica americana e con un’Urss ancora aggressiva sul piano militare, gli anni Ottanta furono caratterizzati dalla disastrosa campagna militare sovietica in Afghanistan, dalla campagna militare americana e dal sostegno occidentale alle cause della Polonia di Solidarnosc, infine dalla caduta del muro di Berlino e dalla riunificazione delle due Germanie.

La NATO degli anni ‘90: «Animus in consulendo liber[6]»

La «minaccia sovietica», dopo la disfatta in Afghanistan, il disastro nucleare di Chernobyl, l’indipendenza dei Paesi satelliti, un tentato colpo di Stato a Mosca e lo strapotere americano, era annientata. Gli Stati Uniti avevano vinto la Guerra Fredda. Ma la sfiducia nei confronti di Mosca non si era spenta definitivamente: la Casa Bianca era consapevole che aver sconfitto il nemico nel 1991 non significava averlo sconfitto per sempre. A ciò si aggiungeva un’Europa occidentale priva di un esercito e di una strategia comune e un’Europa centro-orientale instabile politicamente, povera, che richiedeva a gran voce di prendere parte ai processi democratici.

La NATO restava l’unica garanzia di sicurezza strategica e stabilità politica sotto il controllo americano nel continente europeo. Non si trattava più solo di un’alleanza politica, militare e difensiva, ma anche di una comunità di valori. Mosca ne era consapevole. Per questo, prima di cessare di esistere, l’Unione Sovietica chiese una serie di garanzie sulla propria indipendenza, sul futuro della Germania, pedina più temuta da Washington e Mosca, e sulla sicurezza dell’Europa orientale. Garanzie che gli Stati Uniti e i suoi principali alleati occidentali diedero[7] in più occasioni.

In una lettera al presidente tedesco Helmut Kohl, il segretario di Stato americano James Baker scrisse che, durante un incontro con Michail Gorbačëv, al presidente sovietico «ho posto la seguente domanda: preferiresti vedere una Germania unita al di fuori della NATO, indipendente e senza le forze statunitensi, o preferiresti una Germania unificata legata alla NATO, con l’assicurazione che la giurisdizione della NATO non si sposterebbe di un pollice verso est rispetto alla sua posizione attuale? [Gorbačëv] rispose che la leadership sovietica stava seriamente pensando a tutte queste opzioni. Poi aggiunse che certamente qualsiasi estensione della zona della NATO sarebbe inaccettabile». Il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher [8] chiarì che «la NATO dovrebbe escludere un’espansione del suo territorio verso est, cioè spostandolo più vicino ai confini sovietici».

 

Al vertice di Washington del 31 maggio 1990 il presidente americano George Bush assicurò[9] a Gorbačëv che «non abbiamo alcuna intenzione, neanche nei nostri pensieri, di danneggiare in alcun modo l’Unione Sovietica».

E così fu. Almeno inizialmente. Nel 1991 fu istituito il NAAC, forum di discussione e cooperazione tra NATO ed ex membri del Patto di Varsavia, cui seguì nel 1994 il Partenariato per la Pace, organizzazione con lo scopo di dialogo e collaborazione inizialmente composta da almeno trenta membri, Mosca compresa. Mentre la Federazione Russa muoveva i primi passi, negli Stati Uniti proseguiva una discussione interna sui rapporti tra NATO e Paesi dell’est Europa. Il dipartimento della Difesa suggerì[10] di «lasciare la porta socchiusa» all’adesione dell’Europa orientale nella NATO. Ma la porta iniziò sempre più velocemente ad aprirsi con l’insediamento nel 1993 della nuova amministrazione statunitense di Bill Clinton, forte sostenitore dell’Alleanza vista come simbolo di riforme democratiche e di libero mercato in tutta l’Europa; con la consapevolezza che l’Unione europea non avrebbe accolto i Paesi dell’est Europa in tempi brevi; con la necessità, da parte dei Paesi dell’Europa occidentale, di ottenere garanzie militari e strategiche di sicurezza nel proprio continente; con la volontà manifesta degli stessi Paesi dell’Europa centro-orientale di entrare nell’Alleanza Atlantica, animati dalla necessità di rafforzare i processi interni di democratizzazione e tutelare la propria autonomia[11].

In un incontro con Clinton a Mosca, il neopresidente russo Boris El’cin gli fece notare[12] che «abbiamo bisogno di una nuova struttura per la sicurezza paneuropea, non di quelle vecchie», «accettare che i confini della NATO si espandano verso quelli della Russia costituirebbe un tradimento da parte mia verso il popolo russo». Clinton, da parte sua, rassicurò il presidente russo che «non sosterrò alcun cambiamento che minacci la sicurezza della Russia o ridistribuisca l’Europa», ma «non chiederci di rallentare o dovremo continuare a dire di no»: l’espansione sarebbe avvenuta in modo «graduale, costante, misurato» e dopo le elezioni presidenziali del 1996 in entrambi i Paesi. Nonostante l’iniziale contrarietà, El’cin osservò[13] poi che «i tempi sono cambiati e ora esistono due paesi sovrani», «nelle nuove relazioni polacco-russe, non c’è motivo di egemonia»: Mosca non si sarebbe perciò opposta all’ingresso di Varsavia nella NATO perché l’operazione «non è contraria agli interessi di altri Paesi, Russia inclusa».

Incomprensioni? Incapacità dell’Occidente di coinvolgere i russi o incapacità dei russi di riconoscere i canoni occidentali? Indipendentemente dalla risposta, non appena fu riconfermato Bill Clinton alla presidenza, la NATO invitò Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca a partecipare all’Alleanza Atlantica. L’ingresso dei tre Paesi dell’Europa centrale che, forti del sostegno della popolazione locale, del timore nei confronti della Russia e del desiderio di entrare a far parte del mondo occidentale, fu formalizzato il 12 marzo 1999. Il 29 marzo 2004 Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia firmarono il loro ingresso nella NATO (col cosiddetto big bang round of enlargement del presidente americano G.W Bush), cui si aggiunsero Albania e Croazia il 4 aprile 2009. Se tra il 1949 e il 1998 i chilometri di confine comune tra NATO e Russia erano 200, tra il 1999 e il 2003 raddoppiarono (400), per poi arrivare tra il 2004 e il 2021 a 1.300[14].

Prevalse l’idea che occorresse avvicinarsi il più vicino possibile ai confini di Mosca. Prevalse l’idea che, se per due volte l’Europa centro-orientale era stata fonte di grandi guerre nel ‘900, un’espansione della NATO in quest’area avrebbe diminuito le probabilità di nuovi scontri. In molti si fece strada un sentimento di sfiducia verso il nuovo ordine mondiale. Come in George Kennan, diplomatico, padre della politica statunitense del containment nel secondo dopoguerra: «L’espansione della NATO è l’errore più fatale della politica americana nell’intero periodo del dopoguerra fredda. Ci si può aspettare che una tale decisione infiammi le tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa; abbia un effetto negativo sullo sviluppo della democrazia russa; riporti l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est-ovest e spinga la politica estera russa in direzioni decisamente non di nostro gradimento[15]».

La NATO dopo la Guerra Fredda: interventi militari

I primi interventi militari dell’Alleanza Atlantica furono alimentati dal difficile processo di dissoluzione dell’ex Jugoslavia. La NATO intervenne in Bosnia-Erzegovina dove, con l’indipendenza del 1992, le diversità etniche e religiose fra bosniaci, serbi e croati, provocarono episodi di pulizia etnica e scontri in cui morirono migliaia di civili, come il massacro di Srebrenica e i bombardamenti sulla capitale Sarajevo. L’intervento atlantico avvenne contro la Jugoslavia di Slobodan Milošević nonostante l’istituzione, da parte delle Nazioni Unite, di un tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia e di una Conferenza permanente sulla Jugoslavia. L’operazione Deliberate Force iniziò il 30 agosto e terminò il 20 settembre 1995: oltre mille bombe e una serie di missili Tomahawk sganciati da centinaia di aerei, partiti da basi italiane, costrinsero la Jugoslavia a firmare l’accordo di Dayton.

Lo storico italiano Ennio Di Nolfo notò[16] come «la crisi bosniaca aveva riproposto la questione di fondo relativa alla divisione dei compiti fra Nazioni Unite e Stati Uniti» perché «ancora una volta le Nazioni Unite erano il simbolo che legittimava l’intervento militare. In questo caso poteva ben essere invocato anche l’articolo 1 della Carta, che impone come compito primario la tutela della pace e della sicurezza internazionale. Ma la guida effettiva dell’azione fu assunta dalla diplomazia degli Stati Uniti, in combinazione con le proiezioni politico-militari della NATO. Era quest’ultima che si trasformava in ONU, con il pieno rispetto delle forme giuridiche».

Qualcosa di simile sul piano militare, ma di profondamente diverso sul piano giuridico, avvenne nel 1999 in Kosovo, dove le tendenze nazionalistiche imperversavano e richiedevano a gran voce l’indipendenza dalla Jugoslavia. Ma l’importanza storica, economica e religiosa del Kosovo dettò la contrarietà di Milošević. Dal 1998 in tutta la regione si verificò un’escalation di violenze interetniche con oltre 13 mila vittime, per la maggior parte kosovari albanesi. Temendo un nuovo caso di pulizia etnica e ponendosi a tutela dei valori democratici, falliti i tentavi di sedersi al tavolo delle trattative, il 24 marzo 1999  aerei NATO decollati dall’Italia e navi da guerra salpate dall’Adriatico avviarono un attacco[17] contro le postazioni militari jugoslave proseguito per mesi. Il primo giugno il presidente Milosevic avviò una missione di pace in Kosovo.

Tuttavia, osservò ancora Di Nolfo, «l’attacco delle forze NATO era stato compiuto in violazione sia degli articoli 5 e 6 del trattato istitutivo del Patto atlantico, sia della Carta dell’Onu, poiché era mancata qualsiasi autorizzazione all’uso della forza da parte del Consiglio di sicurezza (artt. 24 e 42), così come era mancata una minaccia per la pace e la sicurezza internazionali (art. 1)». Se era necessario riportare la questione in sede legale internazionale, gli Stati Uniti temevano non solo la posizione della Russia, ma anche quella della Cina: Pechino, oltre ad essere scettica sull’intervento NATO in Jugoslavia, si era vista bombardare la propria ambasciata a Belgrado. La soluzione finale cui si arrivò fu porre il Kosovo sotto contingenti americani, europei e russi, a loro volta gestiti dalle Nazioni Unite.

La NATO intervenne anche in Kuwait nel 1991 contro l’espansione dell’Iraq di Saddam Hussein. Operazioni significative avvennero in Afghanistan dopo l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001. Il 12 settembre 2001 la NATO invocò per la prima volta l’articolo 5 secondo cui «un attacco armato contro una parte o più di esse in Europa o nell’America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti» e quindi «ciascuna di esse assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l’azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l’uso della forza armata». Nel 2003 la missione Onu per la ricostruzione del Paese, l’International Security Assistance Force (ISAF), fu trasferita sotto egida NATO, e nel 2004 iniziò la NATO Training Mission in Iraq.

La NATO oggi

Da dodici a trenta membri, dagli Stati Uniti all’Europa Orientale, fino agli interventi armati in alcuni dei territori più sensibili al mondo. Eppure, il destino dell’Alleanza Atlantica negli anni duemila non è stato inizialmente così florido. Di certo hanno pesato l’emergere di attori internazionali come Cina, India, Brasile e Sudafrica, poi la ripresa della rivalità con la Russia di Vladimir Putin, dunque lo spostamento dell’asse e del commercio globale verso Oriente.

Ma ci sono anche questioni interne alla NATO stessa. Più aumentano i componenti dell’Alleanza, più una diversità interna diventa inevitabile: priorità, strategie, costi, processi decisionali. Tutto si complica se si devono mettere d’accordo tanti Paesi e se, per i provvedimenti più importanti, è richiesta l’unanimità. Soprattutto se a ciò si aggiunge che la Russia, dichiarata minaccia diretta per la NATO, è rimasta fino a pochi mesi fa il principale fornitore d’energia per buona parte del continente europeo (e non solo). Che rapporto stabilire con Mosca? Si pensi poi al controverso intervento militare NATO in Libia, avviato nel 2011 con l’operazione Unified Protector per applicare le risoluzioni 1970 e 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, terminato con l’uccisione del dittatore Muammar al-Qaddafi ma che ha poi alimentato nel Paese africano (e in buona parte dell’Europa occidentale) nuove instabilità politiche, economiche e sociali.

In un’intervista del 2019 al «The Economist» il presidente Francese Emmanuel Macron dichiarò che l’organizzazione atlantica era in uno stato di «morte celebrale». La Francia vedeva nella supremazia politica della NATO la principale causa dell’incapacità europea di elaborare un progetto di politica internazionale autonomo. L’analista geopolitico statunitense George Friedman, in un’intervista sulla rivista italiana «Limes» del 2019, notò come «la Nato è già virtualmente decaduta. E non per colpa degli americani. La missione originaria resta valida, nella sua dimensione antirussa e velatamente antitedesca. Ma le nazioni dell’Europa occidentale da tempo hanno smesso di partecipare al suo mantenimento, rifiutandosi di incrementare la spesa militare e perseguire gli scopi statutari. Senza dubbio con il sostegno degli Stati Uniti, Polonia e Romania sono già sufficienti per inibire gli impulsi espansionistici di Mosca».

Gli eventi degli ultimi mesi rimettono tutto in discussione. Infatti, gli impegni della NATO in Europa centro-orientale sono cresciuti nettamente negli ultimi anni. Ancor più dopo la guerra di aggressione iniziata lo scorso 24 febbraio dalla Russia di Vladimir Putin in Ucraina, che non solo ha avuto l’effetto di consolidare la presenza militare atlantica in Europa centro-orientale, ma ha rafforzato l’intera NATO sul piano militare e politico. Oggi la situazione è completamente cambiata rispetto a soli tre anni fa. È stata raggiunta l’unanimità per l’ingresso nell’Alleanza di Svezia e Finlandia, Paesi timorosi della loro vicinanza geografica con Mosca. In Polonia si contano[18] 10.500 soldati NATO, in Slovacchia 2,100, in Estonia 2 mila e in Lituania 4 mila. I membri europei si sono impegnati ad aumentare le spese per la difesa così da raggiungere l’obiettivo del 2 per cento del pil nazionale. Un recente sondaggio[19] commissionato dalla stessa NATO mostra come, nei 30 Paesi membri, il 60 per cento degli abitanti ritiene che l’Alleanza aumenti la sicurezza del proprio Paese, il 72 per cento voterebbe per confermare l’adesione se sottoposta a referendum, il 67 per cento ritiene giusto difendere un alleato nel caso fosse attaccato.

Lo scorso 30 giugno al vertice NATO di Madrid sono stati sanciti tre cambiamenti epocali: aumento da 40 mila a 300 mila uomini della forza d’intervento rapido entro il 2023, creazione della prima base americana permanente in Polonia, adozione di un nuovo Concetto Strategico in cui la Russia è definita come «la minaccia più significativa e diretta alla sicurezza dei suoi Paesi membri» e la sfida alla Cina come «sistemica» soprattutto sul piano tecnologico. Rafforzamento e allargamento. Come prima, più di prima. Riuscirà tutto ciò a far mettere da parte quelle ambiguità che hanno caratterizzato, anche nelle ultime settimane, un’Alleanza Atlantica divisa fra Paesi più schierati contro Mosca (Stati Uniti, Canada, Regno Unito, Europa centro-orientale) e Paesi in difficoltà sulle decisioni da adottare perché legati a Mosca economicamente (Europa Occidentale), cui si aggiunge l’indipendente diplomazia turca di Recep Tayyip Erdoğan? Per ora, pare proprio di sì.


[1] «La strategia segreta della Nato – verbale», dal volume di Limes «America contro tutti», 2019.

[2] Norvegia, il solo membro fondatore della Nato a condividere una frontiera con l’Urss, che pur rimanendo protetta dall’articolo 5, non hai mai ammesso basi, truppe o armi nucleari dell’Alleanza sul suo territorio.

[3] Fatto unico nel suo genere, il testo del Patto Atlantico fu pubblicato il 18 marzo 1949, prima ancora di essere firmato, così da renderlo noto all’opinione pubblica.

[4] Si pensi agli incidenti di frontiera tra la provincia esterna del Sinkiang e dell’Urss, alla denuncia di Mao Tsé-tung delle usurpazioni territoriali sovietiche, al dissenso di Mosca per la «rivoluzione culturale» cinese.

[5]«Storia diplomatica: dal 1919 ai giorni nostri», Jean Bapiste Duroselle.

[6] «Una mente libera nel prendere decisioni», il motto della NATO.

[7] «NATO expansion: what Gorbachev heard», National Security Archive, https://bit.ly/3c8WxxK

[8] «U.S. Embassy Bonn Confidential Cable to Secretary of State on the speech of the German Foreign Minister: Genscher Outlines His Vision of a New European Architecture», National Security Archive, https://bit.ly/3c6WCCa

[9]«Record of conversation between Mikhail Gorbachev and George Bush. White House, Washington D.C», National Security Archive, https://bit.ly/3znAICB

[10] «James F. Dobbins, State Department European Bureau, Memorandum to National Security Council: NATO Strategy Review Paper for October 29 Discussion», National Security Archive, https://bit.ly/3AKg6Xv

[11] In Polonia, nel 1998, in un sondaggio d’opinione pubblica, l’80 per cento della popolazione votò a favore dell’ingresso del Paese nella NATO «Poland and the future of NATO», The institute of world politics, https://bit.ly/3O4US9M

[12] «NATO expansion: what Yeltsin heard», https://bit.ly/2DAE86i

[13] «Yeltsin ‘respects’ Polish position on NATO», UPI Archives, 1993, https://bit.ly/3zQnOyw

[14] «NATO-Russia: 2,600 chilometri di confine in comune», ISPI, https://bit.ly/3ayu5VR

[15] «A fateful error», Kennan G., New York Times, 1997 https://nyti.ms/3Jke9U7

[16] «Storia delle Relazioni Internazionali: dalla fine della Guerra Fredda a oggi», Di Nolfo E., 2015

[17] «24 marzo 1999: venti anni fa iniziava l’operazione Allied Force contro la Serbia», Aviation Report, https://bit.ly/3ByE34o

[18] «NATO now has 40,000 soldiers on Europe’s border with Russia», EuroNews, https://bit.ly/3oPOaum

[19] «NATO Audience Research: pre-summit polling results 2022», https://bit.ly/3PSQQTB


L’Osservatore Romano – 4/8/2022