«Dove va l’umanità? Boh». Inizia così, con una scritta bianca, una strada della campagna romana e due sagome in lontananza, il film che Pier Paolo Pasolini ha ammesso di «aver amato di più» perché «è il mio film più povero e il più bello, e poi perché è l’unico che non ha deluso le attese». Si tratta di Uccellacci e Uccellini, scritto e diretto da Pasolini, interpretato da Totò e Ninetto Davoli, uscito nel 1966.
È capitato di rivederlo grazie a «Circuito Cinema» che, in occasione del centenario della nascita del regista bolognese, ripropone i film di Pasolini in versione restaurata ogni lunedì e martedì nelle sale romane Nuovo Olimpia e Giulio Cesare. È capitato di pensare che, oggi, la figura e le parole di Pasolini potrebbero essere rappresentate proprio da quell’uccellaccio nero dall’accento emiliano (doppiato egregiamente da Francesco Leonetti), che saltella al fianco di Totò e Ninetto, dice di provenire «dalla capitale di un Paese che si chiama Ideologia, è la città del futuro» e di avere come genitori «il signor Dubbio e la signora Coscienza».
L’ironia, la saggezza, la lucidità e gli ammonimenti verso il genere umano cui Pasolini ha spesso fatto riferimento sono tutti racchiusi in questi 89 minuti. «Beati voi che discorrete della vita e della morte con le prime parole che vi vengono dalle labbra». Oppure, «non è forse questa avvertenza della disuguaglianza tra classe e classe, tra nazione e nazione, la più grave minaccia della pace?» domanda il personaggio di San Francesco ai due frati incaricati di evangelizzare falchi e passerotti. In un primo momento, Frate Ciccillo e Frate Ninetto riescono nell’ardua impresa di conversione. Poi però… «e che ci posso fa’ io se ci sta la classe dei falchi e la classe dei passeretti, che non possono andà d’accordo fra di loro?», ammette Totò quando constata che, nonostante la conversione, i falchi non hanno smesso di mangiare i passerotti.
Ecco uno dei passaggi drammaticamente attuali di questo film: lo spirito di Caino. L’amore per il conflitto. Il fascino del male. «Per un fazzoletto di terra, è scoppiata la guerra», starnazza il corvo, «dobbiamo lottare uniti per la pace!». Ma nel mondo di Pasolini non c’è spazio per gli evangelizzatori. Falliscono Ciccillo e Ninetto con gli uccellini nel 1200, fallirà anche il corvo negli anni ’60 del ‘900 con Totò e Ninetto.
Già, perché di fronte ai regressi della società e alla disumanità delle guerre, Pasolini inverte la missione di evangelizzazione: non è più l’uomo a parlare all’animale, ma l’animale a parlare all’uomo. Come in una fiaba. Per comunicare gli uni con gli altri, mentre Frate Ciccillo e Frate Ninetto dovevano imparare il linguaggio dei volatili, l’animale si deve abbrutire, deve accostarsi alla ferocia dell’uomo e da uccellino deve trasformarsi in uccellaccio. Eppure, cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia. L’uomo resta sordo e innamorato della guerra, come «la classe dei falchi e la classe dei passeretti». L’evangelizzazione fallisce. Nonostante le parole del corvo, Totò e Ninetto continuano imperterriti il loro cammino nella brutalità di una contemporaneità fatta di povertà, usura, indifferenza e cattiveria. Non solo: il corvo, simbolo, seppur uccellaccio, di pace e saggezza, finisce nello stomaco di Totò e Ninetto perché «c’ha stufato, abbiamo fame».
Persino la fine che i due protagonisti fanno fare al corvo è accostabile alla figura di Pasolini. Perché troppo spesso si parla del regista come di un genio contemporaneo, ma raramente si è in grado di applicarne gli insegnamenti alla quotidianità. «Ora io piango di me stesso – ammette il corvo a Totò e Ninetto prima di uscire di scena – è umano, no? Quando ci si sente di non contare più». Il cammino incomincia. Il viaggio è già finito. Dove va l’umanità? Boh.
L’Osservatore Romano – 2/6/2022