Arrossisce, Liliia, quando racconta alcuni dettagli del suo viaggio da Kyiv a Roma, dall’Ucraina all’Italia, dal papà Oleksandr alla mamma Tetiana, dalla guerra all’ignoto. Arrossisce perché ha 19 anni, studia Relazioni Internazionali e il suo profilo Instagram, fino al 24 febbraio, raccontava la vita di una ragazza come tante. «Poi tutto è cambiato – dice Liliia al nostro giornale – dopo l’inizio della guerra, ho vissuto con la mia famiglia per due settimane dentro uno scantinato. Eravamo cinque persone e un gatto. Faceva freddo, era umido, ma era l’unico modo che avevamo per sopravvivere. Le sirene antiaeree suonavano in continuazione. E noi riuscivamo a dormire solo tre ore al giorno».
Vivere sottoterra, fisicamente e mentalmente. Perché è difficile essere al centro dell’attenzione internazionale ed essere giovane, sentirsi impotente, sottoposto a un costante stato di ansia e incertezza. «Anche prima del 24 febbraio, la vita non era normale – ammette la giovane ucraina – da un lato, gli avvertimenti di un’invasione imminente del Paese e, dall’altro, la normalità, gli amici, le lezioni, la famiglia. A chi dovevo credere? A cosa dovevo rinunciare? A diciannove anni si può vivere in una condizione simile? Così, ho iniziato a informarmi molto. Ma più leggevo, più le mie paure crescevano e chi mi circondava mi consigliava di leggere meno».
Insieme a lei, suo fratello Andrii, di otto anni. Ed è proprio per e con Andrii che Liliia ha deciso di abbandonare il suo Paese. «Andrii non merita un’infanzia del genere. Lui deve stare con altri bambini, andare a scuola, interagire, giocare a calcio». Così, ascoltato il parere dei genitori, i due giovanissimi decidono di scappare da Kyiv. Liliia e Andrii, 19 e 8 anni. Da soli. Per raggiungere, a Roma, la loro mamma, arrivata tempo prima per lavoro. «Abbiamo attraversato l’Ucraina in macchina con una persona che non avevamo mai visto prima. Poi, con un pullman, da Leopoli, passati per Ungheria e Slovenia, siamo arrivati in Italia. Quattro giorni di viaggio, due fermi ai confini, otto ore per uscire da Kyiv. I miei genitori non hanno mai dormito, avevano paura che finissimo sotto i bombardamenti o in Russia. Dovevo inviare loro la posizione e, contemporaneamente, badare a mio fratello. Non è stato facile. Ma Andrii mi ha aiutato. È stato calmo dall’inizio alla fine. Avrebbe potuto piangere, dire che voleva mangiare, dormire, andare in un bagno normale. Non abbiamo avuto modo di lavare neanche le mani fino all’arrivo in Slovenia».
E se Andrii non fosse stato con lei, Liliia cosa avrebbe fatto? La sua storia sarebbe cambiata? «Non lo so – risponde – forse sarei rimasta in Ucraina. Soprattutto per mio papà. Non posso immaginarlo solo, nella nostra casa, con una guerra fuori dalla porta di casa. Volevo restare con lui, fargli da mangiare, assisterlo. Perché quando ho visto il suo viso in televisione, tra i volontari del mio Paese, premiato per aver estratto dalle macerie i nostri connazionali, io in mio papà ho visto lo spirito del sacrificio, ho visto un eroe».
Proprio quando parla degli eroi del suo Paese, in Liliia emergono persino i rimorsi: «Non ho fatto abbastanza», ripete tante volte, «per molto tempo c’è stato spazio solo per la frustrazione, quella strana percezione psicologica di essersi salvata, ma di non aver fatto niente per gli altri, per l’Ucraina. Non sono una giornalista né una volontaria, solo una studentessa. Ma accanto a me avevo la guerra, quella vera. È devastante pensare che qualcuno è potuto scappare e qualcun altro no. Perché? Ora sto imparando a dedicarmi alle cose belle: studio, faccio volontariato nella chiesa di Santa Sofia, scendo in piazza a manifestare per il mio Paese e contro la guerra, parlo dell’Ucraina attraverso Instagram».
Ecco, le cose belle. Ora Liliia, pensandoci, sorride. Perché non ha dimenticato come si fa, perché ha 19 anni e perché c’è Andrii, a pochi metri da lei, che con la maglia di Leo Messi tira i calci a una pigna.
L’Osservatore Romano – 30/5/2022