Reina non può asciugarsi le lacrime al funerale di sua figlia. Non può farlo perché è ammanettata. Rinchiusa nel carcere di Manila, spogliata della sua dignità, privata del suo ruolo di madre. Reina non strilla né si dispera. Nell’unica foto che la ritrae in quel momento, tiene lo sguardo basso.
Forse, guardando quelle manette, Reina sta ripensando alla sua storia. È stata arrestata nel 2019 con l’accusa di detenzione di armi da fuoco. Dopo tre mesi di prigionia, ha scoperto di essere al terzo mese di gravidanza. Sua figlia, River, è nata il primo luglio del 2020. Nelle Filippine la legge prevede che, se la madre è in carcere, il figlio le sia portato via dopo un solo mese dalla nascita. Nonostante le richieste dei medici di tenere uniti Reina e River per più tempo, le autorità carcerarie le hanno separate ad agosto. Con il divampare della pandemia nel Paese, l’accesso alle prigioni è stato ulteriormente limitato e, per Reina, le possibilità d’incontrare sua figlia sono del tutto sfumate. Dopo il ricovero in ospedale, River è morta all’età di quattro mesi non compiuti a causa di una polmonite.
Questa storia è stata raccontata lo scorso anno dalla Bbc. Purtroppo, non è un caso isolato. Il Washington Post, ad aprile, ha raccontato quella di Rosemarie. Accusata di uso e spaccio di droga, al quarto mese di parto Rosemarie entra nel carcere di Manila. Un anno più tardi, torna ad essere una cittadina libera, ma una madre oppressa: fino a quel momento ha potuto trascorrere un solo giorno con suo figlio.
Il Bureau of Jail Management and Penology delle Filippine ha registrato più di 1.600 detenute in stato di gravidanza e 485 nuove nascite nelle carceri negli ultimi due anni. Circa l’80% delle donne è accusato di reati legati alla droga. I processi nelle Filippine durano tantissimo, troppo tempo. Ma, nel frattempo, cosa succede a queste mamme? E ai loro figli? Secondo Amnesty International, dal 1995 nelle Filippine sono stati arrestati oltre 50 mila bambini accusati di reati minori, come piccoli furti o vagabondaggio, che in carcere si ritrovano in condizioni disastrose. I minori dormono sdraiati sul pavimento in cemento, i bagni sono otturati, le celle sono sovraffollate, per loro non è previsto alcun sistema educativo. Dietro le sbarre, i minori finiscono per essere vittime di violenza e abusi sessuali da parte degli adulti. Spesso non hanno neanche un documento d’identità perché provengono dalla strada e vengono arrestati mentre fanno i fattorini della droga. «Ci sono dei giocattoli?», è una delle prime domande che i più piccoli rivolgono agli operatori di beneficienza.
Nel mondo sono oltre 261 mila i minori detenuti. Lo ha denunciato di recente l’Unicef: «Ogni minore detenuto è la prova del fallimento del sistema» ha denunciato Henrietta Fore, direttore esecutivo dell’Unicef, «i minori in carcere, per immigrazione o in relazione a conflitti armati, o quelli che vivono con parenti in detenzione, si trovano spesso in spazi ristretti e sovraffollati. Non hanno un accesso adeguato alla nutrizione, all’assistenza sanitaria e ai servizi igienici. Sono vulnerabili all’abbandono, agli abusi fisici e psicologici e alla violenza di genere». A ciò si aggiunge il covid che, prosegue il direttore, «ha profondamente colpito la giustizia minorile, attraverso la chiusura dei tribunali e la limitazione dell’accesso ai servizi sociali e giudiziari essenziali».
Tuttavia, dal mondo non emergono solo notizie negative. L’Unicef rivela che, durante la pandemia, 45 mila minori in 84 Paesi sono usciti dalle carceri. «Questi giovani sono stati sottratti a situazioni che avrebbero potuto esporli a gravi malattie. I paesi sono stati in grado di superare la resistenza pubblica e innescare soluzioni di giustizia innovative e adeguate all’età. Questo ha dimostrato qualcosa che già sapevamo: le soluzioni di giustizia a misura di minore sono più che possibili».
In Nuova Zelanda circa 23 mila minori vivono in prigione. Nel carcere femminile di Arohata è nato “Bedtime Stories”. Il programma coinvolge alcuni volontari che, una volta al mese, portano in prigione una serie di libri con storie per bambini. Ad ogni genitore viene chiesto di scegliere un racconto e leggerlo ad alta voce. L’audio viene registrato, messo su cd e poi inviato ai rispettivi figli. In Nuova Zelanda ci sono poche carceri femminili. Molto spesso i bambini potrebbero essere dall’altra parte del Paese e le visite non avvengono regolarmente. Così, ecco che entra in campo un’iniziativa «a misura di minore». Piccola, ma efficace. In grado di stabilire un contatto tra volti lontani, attraverso una voce vicina. Una connessione dal mondo e col mondo. In grado di bucare le pareti del carcere. Ma basterà ad asciugare le lacrime dei rimpianti, quando le mani sono legate dalle manette?
L’Osservatore Romano – 10/12/2021