L’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (Opec) ha deciso ieri che il piano di aumento della produzione di 400.000 barili al giorno continuerà anche a gennaio. L’Organizzazione, formata da 13 Paesi e guidata dall’Arabia Saudita, si è riunita con i rappresentanti di altri dieci Paesi, guidati dalla Russia. Il vertice è stato piuttosto inusuale: niente discorso di apertura, né una conferenza stampa finale. I delegati si sono limitati a diffondere un comunicato in cui si legge che, nonostante la diffusione della variante omicron, la produzione di greggio resterà invariata.
È una decisione saggia o azzardata? Solo il tempo può dirlo. Per ora, dopo la comunicazione dell’Opec, il petrolio ha chiuso in rialzo negli scambi di ieri. Ultimamente, l’andamento del prezzo del greggio è sempre più imprevedibile. Non è una novità. Ma è utile per comprendere quanto la cronaca internazionale incida sui mercati. Sì, è tutto connesso. Ed è sempre una questione di soldi, diceva Gordon Gekko nel film Wall Street. Ci sono almeno tre fattori in grado di condizionare i prezzi dell’oro nero: pandemia, geopolitica, rivoluzione energetica. Se i contagi da covid-19 aumentano, i governi intensificano le restrizioni e i cittadini smettono di circolare. Un calo degli spostamenti significa meno automobili, aerei e treni in circolazione. Quindi, meno richiesta di carburante e, di conseguenza, meno necessità di petrolio. Se cala la domanda, i produttori cercano di attirare i consumatori abbassando ulteriormente i prezzi. Questo scenario si è verificato durante la prima ondata: tra marzo e aprile 2020 viene a mancare più del 20 per cento dei consumi giornalieri di petrolio e, così, il prezzo del greggio sperimenta il secondo crollo più intenso della storia (meno 80 per cento). I produttori di petrolio si mettono d’accordo e tagliano l’offerta di 10 milioni di barili al giorno. Poi, arginato lo spettro di nuovi lockdown e consolidata la campagna vaccinale, la domanda torna a crescere. L’Opec e altri Paesi produttori di petrolio decidono di tornare ai livelli di produzione pre-pandemici, ma con gradualità.
Ed è proprio qui che entrano in gioco i rapporti internazionali. L’Opec è un’organizzazione formata da 13 Paesi asiatici e africani. Gli Stati membri controllano circa il 79 per cento delle riserve mondiali di petrolio. Ma i principali produttori di greggio al mondo sono Stati Uniti, Arabia Saudita e Russia. Il primato statunitense è dovuto alle attività di estrazione in 32 Stati e ai nuovi sistemi di perforazione, sperimentati per la prima volta negli Usa, che permettono di trivellare in orizzontale e accedere più facilmente agli strati rocciosi. La Cina, nella corsa al petrolio, è assetata ma limitata: si posiziona al secondo posto (dopo gli Usa) nella classifica mondiale dei consumatori, ma quinta nella classifica dei produttori. La produzione interna basta a coprire solo il 30 per cento del consumo di petrolio cinese: più o meno 4 milioni di barili prodotti al giorno rispetto ai 14 milioni consumati. Come mai? Perché nei confini del Dragone Rosso si trova solo il 2,4 per cento delle riserve mondiali accertate di petrolio. Per la fornitura di petrolio, la Cina dipende da Arabia Saudita e Russia. Anche i sistemi di perforazione degli Stati Uniti costano molto e, quindi, Washington è molto attenta alle mosse dell’Opec.
I Paesi che consumano più petrolio sono quelli più preoccupati dall’andamento della curva di domanda e offerta. A inizio novembre, l’amministrazione Biden, insoddisfatta dalla graduale ripresa della produzione e dai prezzi ancora elevati, invita l’Opec a «fare di più». Non bastano 400.000 barili in più al giorno. Bisogna aumentare la produzione di petrolio. La Casa Bianca teme due conseguenze: l’aumento del prezzo della benzina e il rincaro delle materie prime energetiche. Se aumenta il costo della benzina, i cittadini sono insoddisfatti e l’amministrazione perde consenso. Se aumenta il prezzo dell’energia, gli obiettivi sul clima rischiano di non essere rispettati. Ma l’Opec non ci sta. Arabia Saudita e Russia chiudono le porte agli Stati Uniti. La battaglia geopolitica è solo all’inizio. Ed ha un risvolto unico. Martedì 23 novembre il presidente Biden sfida l’Opec, dichiarando che attingerà alla Strategic Petroleum Reserve per estrarre nuovo petrolio e raffreddare i prezzi. Lo sforzo sarà «globale». Coinvolgerà Regno Unito, Corea, India e Giappone. Ed anche la Cina. Sì, il Dragone e gli Stati Uniti. Insieme. Contro una decisione della Russia. Secondo l’accordo, Washington rilascerà 50 milioni di barili e gli altri Paesi i restanti 50.
A distanza di giorni, sulla scacchiera è arrivata una nuova “pedina”: omicron. Proprio perché il valore dell’oro nero segue l’andamento della pandemia, di fronte alla diffusione della nuova variante, il prezzo del greggio è crollato di oltre il 10 per cento. Gli analisti non sanno cosa succederà. Il covid-19 è imprevedibile. Due giorni fa la borsa di Wall Street ha improvvisamente chiuso in negativo dopo la scoperta del primo caso di variante omicron nel Paese. Così, anche se gli Stati Uniti speravano in uno sforzo maggiore da parte dell’Opec, ieri la Casa Bianca è stata costretta ad accogliere «con favore la decisione di continuare l’aumento di 400.000 barili al giorno».
Ma una cosa è chiara: il petrolio è ancora al centro degli affari internazionali. No, non basta un rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) in cui si afferma che, per centrare l’obiettivo della neutralità carbonica, il 60 per cento dei veicoli nel 2030 dovrà essere elettrico. Non basta neanche il blocco dei viaggi a causa della pandemia. Il mercato dell’oro nero resta, e resterà, strategico ancora per molto tempo. Soprattutto se i Paesi che ne chiedono lo stop, in nome del «rispetto dell’ambiente», sono i primi a consumarlo. L’ennesimo paradosso della rivoluzione green.
L’Osservatore Romano – 3/12/2021