Un anno fa, l’immunologo Anthony Fauci, ora Capo consigliere medico per l’amministrazione Biden, richiedeva a gran voce una rappresentazione più diversificata della popolazione nella fase di sperimentazione del vaccino contro il covid-19. Parallelamente, il giornale statunitense The Hill pubblicava un’inchiesta dal titolo «perché gli indigeni americani sono scettici sul vaccino?». Le risposte erano molteplici: le difficoltà dei nativi americani per accedere alle strutture sanitarie, il loro rapporto con gli scienziati, la disinformazione sulla fase sperimentale del vaccino. Insomma, più che di scetticismo, si trattava di problemi strutturali e culturali di una popolazione minoritaria, spesso costretta a vivere ai margini della società. Negli Stati Uniti gli indigeni rappresentano l’1,6% del totale della popolazione. Si tratta di poco più di cinque milioni di abitanti. Apache, Navajo, Cheyenne, sono alcuni dei 574 gruppi tribali riconosciuti a livello federale. Dal 2012, il 78% dei nativi americani vive nelle città. Come hanno affrontato la situazione pandemica?

Questa etnia ha ottenuto due primati che mostrano due lati molto diversi della realtà. Il primo: negli Stati Uniti, gli indigeni sono il gruppo con il più alto tasso di vaccinazione contro il covid-19. Altro che scetticismo! Oggi il 79% degli indigeni d’America è vaccinato (la media nazionale è del 58,%). L’Indian Health Service, agenzia interna al Dipartimento della salute e dei servizi umani degli Stati Uniti che supporta la comunità indigena e fa fronte alla campagna vaccinale dei nativi americani, ha distribuito più di 2 milioni di dosi. Di queste, poco meno di 500 mila devono ancora essere somministrate.

Insomma, tra la fase di sperimentazione e quella di vaccinazione la posizione degli indigeni d’America è chiaramente cambiata. Come mai? Lo rende noto un sondaggio, pubblicato a marzo dall’Urban Indian Health Institute, in cui viene chiesto a un campione di 1.435 nativi, rappresentanti di 318 diverse tribù, se si sarebbe vaccinato contro il covid. Il 75% dei partecipanti ha risposto di sì: «la motivazione principale è un forte senso di responsabilità nel proteggere la comunità». Il restante 25%, invece, non intende vaccinarsi perché o considera il covid una malattia non grave, o ha scarsa fiducia nei vaccini. Responsabilità e senso della comunità sono le parole chiave da segnare sul taccuino. Soprattutto per gli occidentali, che spesso cercano i valori smarriti dentro sé stessi o in terre troppo lontane. Dimenticandosi che, talvolta, si può ricercare la propria identità attraverso l’altro che è diverso ma che, quotidianamente, ci vede vivere.

Tuttavia, proprio dalla ricerca dell’Indian Health Institute emerge un dato piuttosto preoccupante: il 39% dei nativi americani ha segnalato difficoltà a recarsi presso la propria clinica. Ed ecco che si arriva al secondo, triste primato degli indigeni nella situazione pandemica. Negli Stati Uniti i nativi americani hanno avuto il più alto tasso di mortalità per covid a livello nazionale. A marzo 2021, l’Apm Research Lab ha promosso un progetto («Color of Coronavirus») per analizzare i tassi di mortalità negli Usa divisi per etnia. Cosa emerge? Che per ogni 100 mila indigeni, 256 morivano a causa del covid. È il tasso più alto se si pensa a quello degli asiatici (96 ogni 100 mila abitanti) e dei bianchi (150 ogni 100 mila abitanti). L’Indian Health Service ha rivelato che «gli indiani d’America e i nativi dell’Alaska hanno tassi d’infezione superiori del 3,5% rispetto ai bianchi e hanno il quadruplo delle possibilità di essere ricoverati a causa del covid».

La pandemia ha solo rimarcato un problema ormai noto: i nativi americani hanno forti problemi di accesso ai servizi sanitari. La conseguenza? La loro aspettativa di vita è inferiore di 5,5 anni rispetto a tutti gli altri abitanti degli Usa. Malattie epatiche, croniche, respiratorie, diabete o cancro, non riescono ad essere curate quando colpiscono gli indigeni. Nel 2019 il tasso d’incidenza della tubercolosi negli indiani d’America era pari al 3,4%. Nella popolazione bianca il tasso era solo dello 0,5%.

Ma perché avviene tutto ciò, nonostante lo sforzo dell’Indian Health Service, che ogni anno aiuta 2,2 milioni d’indigeni e attualmente finanzia 41 organizzazioni sanitarie indiane urbane? La Cnbc ha rivelato che «il governo degli Stati Uniti non ha finanziato adeguatamente il programma sanitario dell’Indian Health Service, privando molte comunità della capacità di fornire cure di qualità». Bisogna anche pensare che il 10% dei nativi americani ha più di 65 anni. Nel gruppo Navajo il 70% delle vittime aveva più di 60 anni. Questioni demografiche, certo. Ma anche culturali. Chi si occuperà di tramandare la lingua e le usanze della comunità indigena? Poi, molti nativi vivono in tribù non riconosciute o in luoghi geograficamente isolati. Perciò non hanno accesso all’acqua potabile o ai servizi sanitari. Gli indigeni sono anche più esposti a lavori pericolosi e a problemi razziali. Così, come nota il Washington Post in un editoriale, «seppur vaccinate, le persone di etnia nera, latina o indigena sembrano avere maggiori probabilità di contrarre infezioni».

Una speranza, in tutto questo, c’è. La pandemia ha fatto emergere anche una collaborazione proficua tra governo federale degli Usa e Indian Health Service: la donazione di 9 miliardi di dollari fatta dal Pentagono, insieme all’impegno dei medici, ha permesso di arrivare ai livelli alti di vaccinazione tra gli indigeni. È in questa direzione che bisognerebbe andare nel corso dei prossimi anni. Sì, responsabilità e senso di comunità. Ancora una volta. Da parte di tutti, per tutti.


L’Osservatore Romano – 12/11/2021