C’è un grande paradosso all’interno della quarta rivoluzione industriale: il ruolo da protagonista delle terre rare.

Le Rare Eearth Metals (REE) sono un gruppo di 17 elementi chimici appartenenti alla famiglia dei metalli. Non sono difficili da trovare, ma da estrarre. Perciò vengono chiamati rari. Questi elementi sono indispensabili per realizzare una serie sterminata di prodotti: auto elettriche, fibra ottica, smartphone, batterie ricaricabili per macchine ibride, turbine eoliche, televisori. Ad esempio, l’olmio è usato per i forni a microonde. Il neodimio per la produzione di motori elettrici, robot o dischi rigidi. Altri metalli sono importanti per prodotti militari, aerospaziali e medici.

Insomma, se si vuole portare avanti la rivoluzione green è impossibile fare a meno di questi elementi. Lo United States Geological Survey afferma che la produzione globale di terre rare è aumentata notevolmente dagli anni ’50. In una prospettiva futura, lo United Nations Environment Programme stima che la crescente necessità di tecnologie rinnovabili richiederà di estrarre più di 600 milioni di tonnellate di metalli rari. C’è un leader in questo mercato? Ovviamente sì. Fino agli anni ’80, il podio era occupato dagli Stati Uniti. Poi, la produzione statunitense è iniziata a calare. Negli anni 2000 l’unica grande miniera di terre rare negli Usa, quella di Mountain Pass, in California, veniva chiusa. Così, nel 2015 gli Stati Uniti si fermavano a 5.900 tonnellate di terre rare lavorate e prodotte. Eppure, nel 2016 ne consumavano ben 16.000. Cosa è cambiato? «Il Medio Oriente ha il petrolio, la Cina le terre rare», diceva Deng Xiaoping negli anni ‘80. Sulla scena è comparso un nuovo leader: il Dragone Rosso. La Cina, oggi, è arrivata a detenere circa il 40% delle riserve mondiali di terre rare, produce oltre il 60% degli ossidi e conta l’85% delle capacità di raffinazione. Seguono Brasile, Russia, India e Australia.

Il mercato delle terre rare è uno dei protagonisti della geopolitica contemporanea. Lo si capisce ancora meglio dalla cronaca. Nel 2010 la Cina interrompeva l’export di terre rare verso il Giappone, dopo che Tokyo aveva arrestato il capitano di una nave cinese nelle isole Senkaku. Un colpo basso per l’economia nipponica, perché la produzione del Giappone dipendeva per il 90% dall’export cinese. Sul fronte occidentale, oggi, c’è molto di nuovo: gli Stati Uniti, per avere un servizio di intelligence efficiente e dinamico, hanno bisogno di laser, droni, missili. Quindi, di terre rare. Nel 2018 viene riaperta la miniera di Mountain Pass. L’anno successivo, l’ex presidente Trump firma un executive order con cui dichiara l’emergenza nazionale per la scarsezza di terre rare e, dunque, la necessità di aumentare la produzione. Una volta insediatosi, il presidente Biden avvia dialoghi con Giappone, Australia e India, nell’ambito dell’accordo Quad, per l’indipendenza dal mercato del Dragone. E l’Europa? Anche l’Unione finanzia un progetto, EURARE, per lo sviluppo di un’industria estrattiva di terre rare.

Fin qui, sembra tutto perfetto. Le terre rare servono a produrre ciò che l’ecologia richiede. Se si frenano i monopoli, chiunque ne beneficerà. Purtroppo, non è così. Anzi. Una domanda svela il problema: come avviene il processo di lavorazione delle terre rare? Lo spiega bene un rapporto dell’Università di Cambridge pubblicato nel 2018: «la catena di approvvigionamento delle terre rare prevede quattro fasi. L’esplorazione, in cui si localizzano le risorse. Poi, ottenuti i permessi, c’è la fase di estrazione mineraria. La terza fase è quella della lavorazione, che può essere semplice o complicata in base ai minerali trattati. Per quanto riguarda le terre rare, questa fase è molto complicata e si compone di ulteriori due fasi: concentrazione e separazione». Separazione da cosa? Sostanzialmente, allo stato naturale i 17 elementi chimici sono mescolati con altri minerali in diverse quantità. Perciò, per essere estratti, devono prima essere separati. Qui sorge il problema: per isolare i metalli servono acidi, acqua e solventi organici. Tuttavia, acidi e solventi sono particolarmente dannosi perché emettono Co2 e scorie radioattive e chimiche nell’ambiente. Dunque, danneggiano il contesto ecologico. Euronews segnala che «secondo l’Associazione cinese delle Terre Rare, per ogni tonnellata di metalli rari estratti, vengono scartati tra i 9.600 e i 12.000 metri cubi di rifiuti sotto forma di gas, a loro volta contenenti polveri concentrate, acido fluoridrico, anidride solforosa e acido solforico. Si produce circa una tonnellata di rifiuti radioattivi».

Insomma, le terre rare, per le loro caratteristiche scientifiche, non possono essere considerate sostenibili né facilmente accessibili. Eppure, farne a meno, oggi, è impossibile. Questi metalli sono alla base della maggior parte degli strumenti che usiamo quotidianamente. Sarebbe però sbagliato non considerare i loro problemi e le possibili soluzioni. Per esempio, cosa potrebbe succedere se la Cina decidesse di diminuire l’export di terre rare al fine di aumentare l’uso domestico? Come evolverà questo mercato se i sistemi di estrazione dovessero diventare più difficili, o se i metalli dovessero diventare più rari? Ancora, esistono alternative più sostenibili per l’estrazione delle terre rare?

La pandemia ha svelato quanto è importante ed efficace la cooperazione tra scienza e politica. Ora si spera che questa lezione non resti sui libri di scuola, ma che si trasformi in una strategica e preziosa consuetudine.


L’Osservatore Romano – 29/10/2021