Instagram, WhatsApp e Facebook. Fante, cavallo e re. Tre carte, tre figure, tre punti. Sono in grado di assicurare la vittoria finale? Ultimamente, pare proprio di no.

Ottobre è stato un mese complicato per le piattaforme di Mark Zuckerberg. Pochi giorni fa Facebook ha annunciato un rafforzamento delle protezioni per dissidenti governativi, giornalisti e attivisti per i diritti umani. Anche le politiche sul bullismo cambieranno: i contenuti che riducono i personaggi pubblici a oggetti sessuali verranno eliminati, mentre tutte le molestie coordinate fra più utenti saranno vietate.

A cosa sono dovuti questi cambiamenti? Per rispondere bisogna guardare il mercato. Martedì 7 settembre Facebook raggiunge il record storico della sua quotazione in Borsa. Poi, però, qualcosa cambia. Nell’ultimo mese l’azienda perde il 15% del suo valore. Gli investitori osservano, percepiscono, decidono di vendere. E Facebook subisce la terza perdita più grave nella sua storia, nonostante la quotazione resti altissima. Poco dopo, nella prima settimana di ottobre, l’azienda di Zuckerberg affonda di nuovo e perde fino al 6% del valore in Borsa.

Dietro gli andamenti del titolo si nasconde la cronaca. La perdita di ottobre è collegata al più lungo blackout della storia di Facebook, avvenuto lunedì 4 ottobre, quando tutte le piattaforme sono risultate inaccessibili agli utenti per sei ore. Ma gli impedimenti logistici corrono parallelamente ad una crisi ancora più profonda: quella degli attacchi pubblici sferrati da politici, ex dipendenti o addetti ai lavori.

Dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, lo scorso settembre il «Washington Post» pubblica una serie d’inchieste chiamate «Facebook files». L’accusa è chiara: vi sono milioni di utenti, classificati come vip, che Facebook esenta dalle regole del social network. Tutto ciò avviene attraverso un sistema, creato proprio da Facebook e chiamato «XCheck», collegato ad una lista a cui, nel 2020, appartenevano circa 6 milioni di utenti. Calciatori, politici, influencer: chi più ne ha più ne metta. «A differenza della nostra comunità, le persone presenti in questa lista possono violare i nostri standard senza subire conseguenze», si legge in un documento interno a Facebook e pubblicato dal «Washington Post».

L’accusa è chiara. Si parla di sotterfugi tecnologici, danni sociali, conseguenze politiche. Non solo in Occidente. Come afferma Charles Arthur, technology editor del «Guardian», secondo cui Facebook «non è stato in grado di decifrare i messaggi in lingua birmana, presenti nei social, attraverso cui si chiedeva di eliminare la popolazione musulmana locale. Ciò ha favorito la diffusione d’odio e il successivo genocidio dei rohingya in Myanmar. Il risultato ottenuto da Facebook» prosegue Arthur «è stato quello di indebolire le democrazie».

Il campo è minato. Anche la politica americana contesta Facebook. I democratici disapprovano la natura monopolista, mentre i repubblicani rimproverano la censura alla campagna presidenziale di Donald Trump. Il procuratore generale di Washington, Bob Ferguson, fa causa a Facebook per due volte: l’accusa è di aver violato ripetutamente e apertamente le leggi sulla trasparenza della campagna statale, vendendo annunci politici senza fornire i dettagli di spesa richiesti dalla legge. Questa settimana Ferguson accusa un rappresentante di Facebook di aver fornito falsa testimonianza.

Infine, c’è l’ultima giocata. Quella in cui accusatori e politica americana si incontrano. Giorni fa, davanti a una commissione del Senato americano, Frances Haugen, ex product manager di Facebook, ammette di credere che «i prodotti Facebook danneggino i bambini, alimentino la divisione, indeboliscano la nostra democrazia. La leadership dell’azienda sa come rendere più sicuri i social, ma non apporterà cambiamenti perché i loro immensi profitti valgono più delle persone. L’azione del Congresso è necessaria». La trentacinquenne, laureata ad Harvard e assunta da Zuckerberg nel 2019, afferma che solo l’azienda conosce le vere dinamiche del sistema e impedisce a ricercatori e regolatori di comprenderle. «Durante gli ultimi mesi della campagna presidenziale americana, Facebook ha allentato la censura dei messaggi d’odio e i contenuti che disinformavano sul risultato elettorale, favorendo la diffusione dei messaggi sui presunti brogli elettorali».

La partita è lunga. Si percepiscono malumori, si temono bluff. In effetti, la precisione delle domande poste dai senatori e la prontezza di risposta della Haugen sono davvero singolari. In molti, poi, pensano che «Facebook risulta antipatica alla politica americana perché non ha le stesse conoscenze di Google».

Insomma, siamo proprio sicuri della veridicità di queste accuse? Nel frattempo, l’indice di gradimento degli utenti cala: nella classifica stilata da Altroconsumo in Italia, Euroconsumers in Spagna, Test-Achats in Belgio e DecoProteste in Portogallo, Facebook non raggiunge neanche la sufficienza.

Il tavolo da gioco si riempie di ombre e fumo. Il mazziere scopre le altre carte che contano. C’è il tre di briscola, Twitter: non demorde e rimane il social a cui fare affidamento durante i blackout di Facebook. Infine, l’asso. Si chiama TikTok. È cinese. A luglio 2020, dopo soli tre anni di attività, contava già un miliardo di utenti attivi al mese. Perché, in fondo, non si tratta solamente di social network. Prima di tutto, si tratta di strategia. Di affari internazionali. Come prima, più di prima.

L’Osservatore Romano – 16/10/2021

Leave a Reply