Settimana che passa, problemi che si trovano. A Roma, rispetto alla scorsa settimana, le cattedre vacanti sono aumentate: da duemila a tremila. Stando ai dati più recenti, gli insegnanti di sostegno sono 6.742, ma ne servirebbero 675 in più. Le cause sono molteplici. C’è chi ha trovato un altro lavoro, anche meglio retribuito, o chi non vuole spostarsi dal proprio quartiere. In effetti, da quando hanno riaperto le scuole, i passeggeri sui mezzi Atac sono cresciuti del 18,5%. L’ultimo rapporto di Enel X rivela che il traffico nella Capitale è aumentato del 22% rispetto al periodo precedente alla pandemia.

Tuttavia, le parole dei docenti, ascoltate la scorsa settimana, hanno rivelato un notevole entusiasmo. Il caos logistico contrasta con la felicità del ritorno in presenza. Dove si nasconde la verità? «La capacità organizzativa ci ha permesso di iniziare l’anno con serenità e consapevolezza», sottolinea Andrea Piersanti, professore di religione al liceo De Sanctis, «lo stato d’animo prevalente è quello di persone che si vogliono rimboccare le maniche. Sarà difficile. Perché i ragazzi che entrano alle 9.40 rischieranno di arrivare a casa dopo le 16. La loro vita sociale verrà stravolta. Per questo credo che, oggi più di prima, sia necessario interagire con gli studenti. Coinvolgerli nei dibattiti. Ad esempio, parlare con loro della didattica. Far capire che il processo di digitalizzazione della scuola va avanti da tempo. Grazie al Piano Nazionale Scuola digitale, il liceo De Sanctis, già da anni, dispone di Lim in ogni aula e di un’ottima rete wi-fi. Ci siamo sorpresi quando, durante la didattica a distanza, abbiamo scoperto che i nativi digitali non conoscono il funzionamento dei computer o del cloud. Non sanno cosa sia il linguaggio informatico. Ma vivono con gli smartphone. È come se sapessero leggere senza saper scrivere. Qui entra in gioco il ruolo della scuola: permettere ai ragazzi di conoscere i mezzi significa dare loro consapevolezza. A scuola come nella vita. È un’opportunità. E ce ne sono tante. Soprattutto oggi».

Le opportunità esistono anche nelle scuole elementari. Lo sottolinea un’insegnante che preferisce mantenere l’anonimato: «Quando hai davanti i bambini di prima elementare, tutto diventa più faticoso. L’anno scorso, da un momento all’altro, si sono trovati a vivere la didattica a distanza. Durante le lezioni, alcuni si nascondevano, altri si vergognavano. Inizialmente non erano facili da gestire. Soprattutto perché non abbiamo avuto il tempo necessario per conoscerli. Noi insegnanti abbiamo dovuto studiare nuovi metodi di apprendimento, basati sull’interazione e il divertimento. La tecnologia ci ha aiutato moltissimo. E credo che oggi sia ancora utile. Soprattutto per affrontare i problemi di queste prime settimane: cattedre vuote, orario ridotto, eventuali quarantene. Il nostro istituto ha potenziato la rete internet e reso possibile la didattica a distanza per i bambini costretti a restare a casa per qualsiasi motivo. Non bisogna solo costruire una lezione. È necessario anche ricostruirla. Rendere disponibile il materiale per gli alunni in modo digitale. Quindi adattarlo e modificarlo. È impegnativo. Ma ne vale la pena. Anche perché, quando insegno, mi voglio divertire. I bambini percepiscono l’entusiasmo. Lo accolgono, lo trasformano in gioia».

Ci si sofferma spesso sul ruolo della tecnologia. Ma non tutti i docenti lo intendono allo stesso modo: «Al liceo Kant c’è un team digitale che si è occupato di fornirci un’assistenza metodologica e pedagogica — dice Maria Grazia Borgese, docente di religione — tuttavia, mi sembra che la pandemia abbia svelato la limitatezza degli strumenti digitali. Indubbiamente, sono stati e sono indispensabili per continuare a lavorare. Ma forse c’è stata una certa ingenuità nel pensare che la digitalizzazione possa essere davvero il futuro della scuola. L’apprendimento non è solo un processo intellettuale o acustico. È anche visivo. Se un ragazzo vede il proprio compagno che segue la lezione, sarà portato a seguire. Durante una lezione in presenza, poi, si percepiscono sfumature della voce che un microfono elimina. Ancora, a lezione conclusa, ho la possibilità di chiedere a qualche ragazzo come sta. Basta una domanda come “tutto bene?”. Ma, a distanza, tutto ciò non può avvenire. I ragazzi chiudono il collegamento e lo schermo diventa nero. È importante, invece, che la relazione venga riscoperta come luogo privilegiato di apprendimento. Esserci. Non solo virtualmente, ma anche fisicamente».

«Ai problemi logistici si aggiunge il processo di indebolimento dei profitti scolastici che, in Italia, va avanti da anni — sottolinea Roberto Contessi, docente di liceo e scrittore — basta leggere i dati. Nel 2018, 4 ragazzi su 10 mostravano difficoltà nelle prove invalsi. Oggi questo valore è arrivato a 5. Ciò dimostra che i problemi dei ragazzi si nascondono ancora nelle tre capacità alla base del loro profilo: parola, calcolo, scrittura. Qui la scuola deve intervenire, accompagnando e valorizzando la persona. Senza trascurare nessuno. Il processo dev’essere basato sul coinvolgimento, la motivazione, l’interesse. Per rendere concrete queste parole, citerò tre modelli sui quali, a mio avviso, la scuola dovrebbe puntare. Il primo: far svolgere lezione anche ai ragazzi. Li ascoltiamo solo quando devono ripetere la lezione. No. Dobbiamo metterli nella posizione di prendere parola in modo argomentato. Ascoltarli, correggerli, apprendere insieme a loro. Poi, dovremmo fornire in modo anticipato i contenuti, impiegando così il tempo della lezione principalmente per spiegare ciò che non si è compreso. Infine, bisogna capire il ruolo del digitale. Il motivo per cui la didattica a distanza, spesso, non ha funzionato non è dovuto alla distanza stessa, ma alla didattica. Alla strategia adottata. Non si è capito che anche il digitale permette di personalizzare e seguire ma in modo nuovo gli studenti. Soprattutto i più deboli».

«Una mia studentessa ha iniziato l’anno scolastico in quarantena — racconta Fabio Pizzicannella, professore di storia e filosofia presso il liceo Albertelli —, dato che voleva partecipare alle lezioni, mi sono attrezzato per farla seguire a distanza. Ho tenuto accesi microfono e videocamera del computer mentre era collegata da casa. Dopo alcuni minuti, la ragazza mi ha fatto notare che era in grado di sentire me, ma non i suoi compagni. Dunque, ho pensato che tutti potessimo passarci il computer per intervenire. È in questo senso che vanno interpretate le nuove tecnologie. Come un gioco. Per questo motivo registro le lezioni e le lascio a disposizione degli studenti. La pandemia ci ha insegnato che la scuola non dev’essere conservatrice. Nel cambiamento, però, è richiesto criterio. Non si può pensare di riprodurre a distanza la didattica in presenza. Piuttosto, bisogna usare modalità asincrone. I ragazzi con “Dsa” ne hanno beneficiato molto. Nessuno, inizialmente, aveva la ricetta giusta per affrontare questo cambiamento. Abbiamo proseguito attraverso tentativi, risultati, errori. Noi e i ragazzi. Che hanno dovuto imparare a cavarsela. E, visti i sorrisi di questi giorni, posso dire che ce l’hanno fatta. La distanza ha ridato gusto alla presenza. Alla quotidianità che, prima, credevamo fosse scontata».


L’Osservatore Romano – 2/10/2021

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