«A me le fotografie che scatto non piacciono. Se considerassi belle le mie foto, mi sentirei arrivato. Invece un fotografo deve sempre avere un minimo di paura. Paura di perdere l’attimo e non intercettare il tempo. Di non entrare in sintonia con chi si ha davanti. Paura di non essere mai abbastanza. Nella fotografia come nella vita. Abbattere gli schemi e rinnovarsi per sentirsi vivo, libero, insostituibile». Sono le parole di Fabio Marcangeli. Fotografo romano, narratore della mondanità, scrutatore della (stra)ordinarietà dell’Urbe: Fabio fotografa persone, crea ritratti, raffigura luoghi. Elena, la contact tracer introdotta poche settimane fa, ha appena concluso il suo lavoro di ricostruzione e tracciamento. Ora è pronta ad ascoltare le parole di Fabio. Scavare, cercare, estrarre. Come i minatori con l’oro, Elena va in cerca di storie.

Fabio: «Io sono nato nella fotografia. Mio padre era un fotografo e stampatore di foto in bianco e nero. Un tempo, il mondo della fotografia era affascinante, complesso. C’erano molti procedimenti per realizzare uno scatto. La camera oscura: la scatola in cui l’artista si nasconde e protegge. Poi i chiaroscuri, il ritoccatore, la luce sfumata, l’odore della foto appena stampata. Oggi no. La fotografia, con gli smartphone e il digitale, è diventata più accessibile, ma anche più falsa. Si va in cerca della perfezione. Si usano effetti e filtri. Così facendo, però, non si modifica solo una foto: si modifica la realtà. Si cerca di plasmare sé stessi e ciò che si ha intorno per arrivare ad un ideale che non esiste. Ciò è causato dal fatto che le persone non si piacciono. Per questo modificano le proprie foto o, addirittura, non vogliono farsi fotografare. Perché la fotografia non piace? Perché uno scatto può essere guardato all’infinito. Si possono notare infiniti dettagli. Come quando ci si mette davanti allo specchio. Si può percepire l’imperfezione che, in realtà, è normalità. Anzi, a volte è anche bellezza. Unicità. La caratteristica dei ritratti è proprio quella di guardarsi ed accettarsi. Smontare la maschera di sé stessi. Dire “io mi piaccio così”. Senza filtri, ma con quell’equilibrio che solo la tecnica di un professionista può assicurare».

Elena: «Tutte i telefoni assicurano una buona qualità, tutte le persone scattano foto, ma pochi raggiungono l’originalità. Quando si guarda un’immagine, spesso non arriva nulla. Avere tutto a portata di mano può facilmente condurre alla prevedibilità. Eppure, la fotografia si basa proprio su quel messaggio indiretto che dovrebbe essere trasmesso da chi scatta a chi guarda. Ed è questa la difficoltà: scattare foto che rappresentino davvero il soggetto o l’ambiente che si ha di fronte. Quanto è difficile essere originali con una città come Roma?»

Fabio: «Molto. Oggi nessuno vuole le foto-cartolina in cui si riprende il Colosseo. Ai fotografi è richiesto qualcosa in più. Un valore umano e personale, non solo tecnico. Quando si fotografa una città, si parla di progetti. Raccontare, comunicare, rompere gli schemi. I murales di via Porto Fluviale, ad esempio, sono luoghi innovativi e intensi da porre al centro di una foto. Così come i palazzi dell’Eur, con le loro forme e gli strani giochi d’ombra. Una volta, poi, sono andato di nascosto al mercato di Porta Maggiore, dove gli extracomunitari si scambiano oggetti usati. Contrattano e barattano beni che noi non prenderemmo mai in considerazione. Ma lo fanno con umiltà e impegno. Roma t’insegna il valore della dignità umana. L’originalità può essere trovata anche in luoghi tipici di questa città. A piazza Navona, ad esempio. Basta andarci alle cinque del mattino. Quando Roma inizia a nascere. Le edicole si colorano, gli ombrelloni sbocciano, le persiane riflettono la luce dell’alba. Si sente solo il rumore delle fontanelle da cui sgorga l’acqua. Bisogna stabilire un certo grado di empatia con ciò che si vuole rappresentare. La foto si deve staccare dalla realtà. Deve diventare foto d’autore. Deve avere una filosofia, una bellezza, una storia. Una sera, sul Lungotevere, mi è capitato di fotografare una senzatetto: dormiva sdraiata per terra circondata dai suoi due cani. Mi sono ritrovato su un altro lato della realtà. Dolce, malinconico. Solo questa città è capace di trasformazioni così improvvise e sorprendenti».

Elena tesse il filo della città e, ancora una volta, s’imbatte nell’eccezionalità di Roma. Si affaccia allo specchio della realtà e vede tutte le storie che ha conosciuto. Personaggi nascosti, luoghi segreti, mestieri inestimabili. Roma s’incontra. Non si aspetta passivamente. Come il vero amore. Persino con il caldo di un luglio appena iniziato. Basta armarsi di un po’ d’acqua fresca. E magari di uno spritz. Facciamo un altro giro di realtà.

Fabio: «Anche i fotografi sbagliano. Io, per esempio, non riesco a trovare un’immagine che ritragga me, adulto, con mia madre. Non la trovo perché non l’ho mai fatta. Spesso non ci pensiamo, ma credo proprio che il piacere della foto non sia nell’imminenza. Io mi emoziono quando scatto una fotografia ad un gruppo di ragazzi e penso che, un domani, loro guarderanno queste immagini. Ne sentiranno il bisogno perché il tempo farà sbiadire i ricordi, li offuscherà, come un’istantanea venuta male. Sapere che il proprio scatto può giungere in aiuto di una persona mi fa stare bene. La fotografia unisce presente, futuro e passato. Si scatta nell’oggi, si rivede domani, si pensa al passato. La magia dell’immagine è tutta qui. Nel raccontare un mondo senza tempo, ma con grandi valori. E il fotografo professionista studia, s’impegna e crea per realizzare tutto ciò. Tutti i giorni. Dalla mattina alla sera. Come ogni altro mestiere».

Fabio conclude il suo racconto ed Elena le vede. Eccole. Sono le tele della propria vita. Appese in camera, nascoste in un hard disk, disposte in un libro. Non importa. Si apre lo scrigno dell’esistenza. Un po’ come si faceva coi vecchi cassetti delle mamme, pieni d’immagini e documenti. Lì si cela la mostra dell’intimità di ognuno di noi. Le fotografie raccontano ricordi. non per forza positivi.

Avviso per i naviganti: la vita non è fatta solo di sorrisi. Ma anche di lacrime e sudore. Accettare o cercare scuse?


L’Osservatore Romano – 3/7/2021