Pensieri della domenica – inverno 2021
Domenica 27 dicembre – “La corazza dell’essere”
Qualche giorno fa ho tentato di immortalare il processo di scrittura di un pensiero della domenica: ho acceso la webcam interna del computer ed ho iniziato a scrivere.
Un procedimento, si direbbe, facile e lineare.
Eppure, più andavo avanti, più capivo come tutto ciò potesse risultare incomprensibile se visto dall’esterno.
Apparentemente, la pagina bianca si riempiva di frasi come per magia.
In realtà, la scrittura viaggia nel corpo. Le parole vengono prima immagazzinate nella mente, poi sono plasmate dal cervello, che segue precise logiche grammaticali, e dal cuore, patria della casualità delle emozioni. Infine, le parole arrivano alle mani, che le conducono verso l’esterno, verso il foglio, verso il prossimo.
Ecco, il fascino della scrittura: il mistero del doppio.
La magia e la scienza,
la pagina bianca e la forma delle lettere,
la casualità e la dedizione,
l’esterno e l’interno,
il corpo e la mente.
Nessun’analisi, nessun procedimento riuscirà a captare certe sfumature.
Durante il 2020 ho imparato come tutto ciò debba essere accompagnato da alcuni aspetti essenziali.
In primis, l’impegno e la coerenza. E l’intuizione: educare la mente a selezionare casualmente immagini, persone, attimi, suoni e parole.
Avere una scadenza, evitare di prolungare i progetti nel tempo, sforzare la mente.
Poi, la condivisione. Risultare comprensibili. Dare non per avere, ma per essere.
Il coraggio di scoprire e quindi di mostrare ciò che amiamo.
Non vale solo per la scrittura, ma per qualsiasi cosa.
E se dovessi pensare ai progetti del prossimo anno?
Non saprei.
L’esistenza è e sarà piena di colpi di scena, cambiamenti, attimi casuali, che mai saremo in grado di prevedere e scardinare.
E le abilità vanno valutate anche in base alla capacità di adattarsi alle imprevedibilità, che si tratti di una pandemia o della perdita di una persona cara.
Bisogna sì programmare l’esistenza in base alle proprie idee e passioni, ma si deve parallelamente predisporre l’anima ad accogliere le infinite ed imprevedibili opportunità quotidiane.
Questo binomio è in grado di costruire una corazza adatta all’esistenza.
Una corazza che è la nostra anima,
viva, implacabile, eterna.
Domenica 3 gennaio – “Dopo l’esplosione”
Non ho mai amato particolarmente il Capodanno.
Forse per quel senso di malinconia che provavo quando, prima di uscire di casa per andare a festeggiare, salutavo i miei nonni. Io alla costante ricerca del modo più stravagante per passare la serata, mentre loro che si accontentavano di stappare uno spumante, brindare e andare a dormire.
Non volevo mai lasciarli soli.
E nessuno andrebbe lasciato solo mentre tutti festeggiano.
Eppure, specialmente in questo periodo, la solitudine è lì, nascosta dentro le case, fra le baracche, sotto i ponti. Prima eravamo solo troppo brilli per accorgercene.
Forse non mi piace il Capodanno perché non riesco mai a capire se l’anno è durato troppo o troppo poco.
Mi guardo indietro, cerco di catalogare gli eventi. A volte mi stupisco, altre capita di commuoversi.
Magari, anziché fare previsioni per l’anno prossimo, vorrei parlare con il me degli anni passati, mostrargli come sono cambiato, cosa ho fatto, chi mi accompagna nella quotidianità.
Quando ero piccolo, mio nonno materno si preoccupava che non toccassi i botti rimasti inesplosi.
Anche oggi, nonostante tutto, se ne trovano molti per le strade.
Eccone uno, lì.
Guardandolo bene, finisco per riflettere su come, nel 2020, tutti possiamo essere paragonati ad un botto inesploso.
Inizialmente eravamo delle micce accese: chi emozionato e carico di desideri, chi afflitto ma speranzoso.
Ci siamo tuffati in quest’anno ormai passato, come un botto lanciato dal balcone.
Poi il colpo di scena: la pandemia, la quarantena, la crisi economica. La normalità stravolta. La miccia non esplode. Per le strade, il silenzio. Un anno che finirà sui libri di storia.
E ora? Il 2021? Possiamo ancora esplodere?
Certo. Siamo solo in attesa di quell’evento che ricaricherà la miccia. Il vaccino? I piani economici? La fine del distanziamento e delle mascherine?
Non lo so.
Indubbiamente, la miccia da scatenare è quella della ripartenza e del riscatto.
Una scintilla che può essere accesa non solo sperando nel ritorno alla normalità, ma anche tenendo conto delle cose imparate durante il 2020.
A proposito, le mie sono riassumibili in tre parole: confronto, curiosità, dedizione.
E le vostre?
Domenica 10 gennaio – “C’è, ma non si vede”
Duemila ventuno,
anno del futuro,
ora che sei arrivato,
pari l’anno appena passato.
Tutto è ancora così
esagerato,
assurdo,
ironico.
Tristemente moderno.
Come prima, più di prima.
Un giorno nel rosso e uno nel giallo, tra il proibito e il concesso, le mura di casa o di un negozio, la cyclette in terrazzo o la corsa al parco. È il valzer del virus. Siamo in pista e non esiste una via d’uscita rapida: balliamo.
Per strada si smontano gli addobbi. Non esiste più neanche la scusa delle feste per dimenticare la realtà. Un Babbo Natale, da poco uscito di scena, esausto e scoraggiato, nel buio dell’intimità, si abbassa la folta barba bianca, porta una sigaretta alla bocca e torna a pensare al presente: “E adesso? Che famo?”
In una via di Roma, degli operai guardano con fierezza il palazzo dal quale hanno appena rimosso le impalcature. Consapevoli che in quelle case non andranno mai ad abitare, si sgomitano e sorridono, celebrano il proprio lavoro. Forse stapperanno un paio di birre. Un nuovo volto, un simbolo del rinnovamento.
Sono queste le immagini, semplici e umili, forse azzardate, o eccessivamente reali, a cui mi viene da pensare oggi. Le vedo e le collego a tre scenari diversi della contemporaneità: la confusione, la desolazione, la rinascita.
Noi, in mezzo a tutto ciò, dove siamo?
Mah, a me piace pensare che ci troviamo in uno spazio indefinito e nebuloso: siamo a metà tra le parole.
Siamo il vuoto che separa la solitudine dall’isolamento.
Siamo il silenzio che ci intrappola tra i rumori e i suoni. Ricordiamo e desideriamo. Nel frattempo, ascoltiamo. Cerchiamo conferme. Inseguiamo la vita, che sia quella passata o quella presente.
Viviamo tra la sospensione e la pausa, tra la normalità interrotta per un attimo o per un’eternità.
Chissà cosa ne sarà.
Questa serie di sfumature della grammatica italiana, Leonardo Sciascia le definiva “la doppiezza delle parole”. Essa può avere un duplice risvolto. Da un lato, provoca l’uso improprio e distorsivo della parola.
Dall’altro, soprattutto in momenti confusionari, genera l’incomprensione del tutto e la necessità del nulla. Un uomo, baldanzoso dentro e opaco fuori, che avanza nella nebbia.
Domenica 17 gennaio – “Lettera a me stesso”
Io lo so,
caro viandante,
perché te ne stai lì, guardingo, nel mezzo,
circondato da sguardi altrui e da pensieri,
ammanettato dall’incapacità di agire.
Te ne stai lì perché non sai scegliere, non vuoi escludere, non puoi deludere.
Cambi continuamente strada perché hai paura di percorrere quella giusta.
Preferisci che, a scegliere per te, sia sempre qualcun altro. Amori o amicizie: optare per qualcuno significa escludere le altre infinite possibilità. E tu non hai intenzione di farlo.
Ogni notte collezioni nella mente i volti di chi ti circonda, come se volessi conservarli tutti sul palcoscenico di un grande teatro di cui sei il regista.
Eccole, le ombre, bianche e fluttuanti, delle persone che incontri, ma che non hai saputo amare perché non si sono mai sentite scelte fino in fondo.
Ti attirano. Tutte. Indistintamente.
Così tanto da non saper fare a meno di conservarle e inseguirle. Così spesso da perdere la concezione del tempo.
Vivi intensamente? O muori dissanguato?
Ami l’esistenza o la odi perché è fatta di scelte che non vuoi intraprendere?
Cosa esigi dagli altri? Compassione o comprensione?
Eppure, caro viandante, io ho capito cosa vuoi dire:
non puoi fare a meno di nessuno.
Tu credi che la felicità consista nel poter dire la verità senza far soffrire gli altri.
Non deludere il prossimo e liberare la propria coscienza da un peso. Contemporaneamente. Realizzare l’altruismo attraverso l’egoismo.
Ma la felicità, mio caro, in una concezione così egoistica e altruistica allo stesso tempo, si realizzerà assai poche volte. Perché la verità, seppur spesso banale, è affascinante quanto insidiosa.
Qual è, allora, la soluzione? Scegliere ed escludere, o vagare nell’indecisione? Far soffrire non equivale a soffrire?
Dov’è la salvezza?
Che sia la vita ad essere incentrata sulla ricerca e sulla scelta della figura salvifica, o sia la vita stessa la salvezza?
Che tristezza, capirti ma non saperti dare una soluzione.
Approfitta dell’adolescenza per maturare le scelte giuste, perché da adulti le decisioni prese dovranno essere portate a termine.
Approfitta persino delle lunghe notti in quarantena per riflettere.
Quando ricapiteranno, amico mio?
PS
Pensiero Spigliato
All’ordine di questi pensieri, negli ultimi tempi sempre più abitanti della mia mente, ha contribuito l’aver rivisto recentemente lo straordinario film 8 ½ di Federico Fellini.
Tra tre giorni, Fellini avrebbe compiuto 101 anni.
Credo che la visione di questo film sia il miglior modo per festeggiare uno dei re della creatività.
Domenica 14 gennaio – “Lettera a me stesso”
Nell’aria, un silenzio che rimbomba.
Lì, in uno spazio angusto, all’ombra del buio, dieci forme di vita: sono gli unici minatori, su ventidue iniziali, sicuramente vivi dopo il crollo delle rocce in una miniera d’oro in Cina. Da due settimane sono intrappolati a seicento metri di profondità. Nel frattempo, i soccorritori hanno scavato tunnel ristretti per consegnare cibo e coperte.
Una miniera trasformatasi in un luogo di simboli e contraddizioni.
Le pietre, scalfite con fatica dai lavoratori, ora ostacolano gli scavi. L’inutilità dell’oro nel momento della sopravvivenza. Gli spiragli di vita provenienti dall’alto e il timore dell’asfissia. I compagni dispersi.
Un lento e consapevole abbandono alla vita? O una via, buia ma gloriosa, verso la salvezza?
L’incertezza e l’esistenza. Contemporaneamente.
Una condizione che non mi pare così lontana da quella in cui ci troviamo noi, soprattutto in tempi di pandemia.
Qui, di fronte alla crisi sanitaria che ha generato un collasso economico e politico, un crollo della quotidianità, abbiamo constatato la fragilità della nostra miniera. Un luogo affascinante e in continua evoluzione, ma troppo esposto ai cedimenti perché paradossale, morbido come la burrata.
Chi saranno i nostri soccorritori? Basteranno i vaccini a risolvere una crisi anche psicologica e sociale?
Non saprei.
In uno stato di attesa, in cui la normalità è bloccata ma la vita biologica prosegue, credo che l’aiuto principale possa provenire dalla reciprocità: non saremo noi stessi i nostri soccorritori, ma saranno gli altri per noi e noi per gli altri.
La reciprocità accompagnata dalla necessità di riflettere e di porsi domande sul futuro, trovando le risposte, indirettamente, nella quotidianità. Resistere collaborando.
Come ci faremo trovare dai soccorritori? Sporchi di terra e pieni di idee, o puliti perché nascosti dentro un guscio?
Ecco, una forte pressione che aumenta ogni giorno.
Un apparente dolore che ci prepara a qualcosa di grande.
È il futuro,
l’inevitabile desiderio di conoscenza,
la pressione dolorosa ma necessaria,
di cui non sappiamo nulla,
ma che inseguiamo continuamente,
come quei minatori fanno con la vita.
PS
Pensiero Sensoriale
Porsi delle domande, insomma.
Un po’ come la storiella dei due embrioni gemelli nella pancia della madre che, precocemente, si interrogano su cosa ci sarà dopo la nascita:
“Ma non senti anche tu, a volte, una forte pressione che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti? Chissà, forse esiste una madre, qualcuno che ci ha messi qui e si prenderà cura di noi” borbotta uno.
“Vedi forse una madre da qualche parte? Quello che ti circonda è tutto ciò che esiste.”
“A volte, se stai in silenzio e presti attenzione, puoi percepire la sua presenza, puoi sentire la sua voce che ti chiama.”
Proprio questa mattina, in Cina, sono stati estratti vivi i primi minatori sopravvissuti. Scombussolati e indeboliti, ma stanno bene.
Domenica 31 gennaio – “Fuga, ricerca e ritorno”
Come un tappeto,
il mare,
quieto,
m’appare.
Se gli esperti dell’università di Tokyo affermano che, in cima ai grattacieli, il tempo scorre più velocemente di oltre quattro nanosecondi rispetto al suolo, gli (in)esperti dell’università della Vita osano ribattere che sul lungomare, d’inverno, avviene il contrario.
Qui, dove l’altura del promontorio si confonde con i trampolini della costa ed ogni strada ha il nome di una pianta, il tempo sembra non passare mai.
Il mare porta la sua schiuma sino ad un palmo dalle scarpe. Partecipa ai pensieri. Nel silenzio, tra l’onda appena stesa sulla riva e l’onda che sta per arrivare, si cela la sua risposta.
Lo sforzo di provare a intercettare l’impercettibile.
L’incapacità di trovarlo perché costantemente attratti da altre forme di vita.
I bambini, pochi ma scalpitanti, allontanatisi dai genitori, non rinunciano a rincorrersi sul bagnasciuga.
Una cesta di giochi, dimenticata da chissà chi, adagiata su una recinzione, aspetta la prossima estate.
Come una modella senza veli, le querce, spoglie, mostrano il lato nascosto della loro bellezza. Come una ragazza in cerca di protezione, i cipressi nascondono i propri rami dietro le foglie ancora verdi.
Personalmente, non ho mai trovato nel mare d’inverno una fonte di distrazione dalla realtà. Non vengo qui per evitare di riflettere o per risparmiarmi i volti della quotidianità.
Piuttosto, sotto un cielo che mi pare più vicino e libero, dimenticate le ambizioni, cerco i ricordi. Ogni tanto li trovo e, così, divago a mio piacimento.
Mi circondo dello sguardo immaginario di persone assenti.
Le posiziono lì, nello stabilimento balneare ora senza ombrelloni o nel parcheggio vuoto.
A volte fa bene, andare lontano per mettere ordine in ciò che è costantemente vicino.
Ecco, il senso del viaggio breve in un luogo già conosciuto: visitare sé stessi.
Valorizzare chi non c’è.
Ricordare ciò che si ha paura di dimenticare.
Astrarsi prima per realizzarsi dopo.
È un lusso che ci si può concedere poche volte.
O, forse, lo scopo di questa gita mattutina era solo controllare lo stato della casa fuori città.
Poi, la gioia nel tornare a Roma e trovare tutto, ancora, al suo posto.
Domenica 7 febbraio – “Chissà”
“La risposta del mare ai nostri pensieri si annida nel silenzio tra l’onda appena stesa sulla riva e l’onda che sta per arrivare”, immaginavo nel pensiero della scorsa domenica.
Chissà, forse lo stesso vale per noi.
Insomma, magari è nel silenzio
fra la nostra ultima parola
e la prima parola dell’altro,
che si nasconde il segreto della risposta, il motivo dell’attesa, il realizzarsi del futuro.
Capita spesso, no?
All’università, mentre si aspetta il voto di un esame, o di fronte a un medico, quando si attende il risultato di analisi importanti: tutto dipende da quell’attimo cadenzato dal vuoto.
Mio padre mi ha parlato del silenzio che scandiva gli attimi appena successivi al primo parto di mia madre.
E l’amore? Non siamo impazientemente scalpitanti di ricevere una risposta, dopo aver rivelato i nostri sentimenti?
Direi di sì.
Forse è solo in un momento come questo che due persone possono dialogare contemporaneamente senza sovrapporsi.
Sono entrambe in silenzio, eppure sono in comunicazione.
Come?
Attraverso la reciprocità.
Se uno medita sulle parole da dire, l’altro immagina la vita che verrà.
In quell’attimo vuoto di parole ma pieno di significato, non ci sono solo l’attesa e la speranza. In noi convivono svariate immagini e innumerevoli interpretazioni. La mente analizza le situazioni, il cuore sfoglia la reazione delle emozioni.
Talvolta, quando questa frazione di tempo si prolunga per un tempo illimitato, finiamo per credere di alimentare false speranze. Allora sorgono i ripensamenti. I rimorsi di aver detto troppo o troppo poco. Il timore che quel silenzio non faccia poi così bene, perché elimina la spontaneità.
Eppure, indipendentemente dalla risposta che riceveremo, è proprio in quell’attesa che il prossimo conferma di averci riconosciuto come suoi interlocutori.
Un riconoscimento che ci garantisce un’identità.
Essere qualcuno per gli altri: il potere delle relazioni umane è tutto qui.
Adesso arriva la notte e, a causa del coprifuoco, tutto tace.
Si rimboccano le coperte e si spengono le luci,
ma i pensieri no.
Qui rimbomba l’eco del lungo silenzio.
Perciò, insonne, vado a vedere il cielo.
Tenterò di capire qualcosa.
Chissà.
PS
Pensiero Scettico
Ma siamo proprio sicuri che riceveremo sempre una risposta dall’altro?
In effetti, non sempre avviene.
Passiamo così tanto tempo a immaginare e ipotizzare, che poi ci dimentichiamo come la risposta che tanto cerchiamo debba venire dall’altro e non da noi.
Così, passa il tempo e quel silenzio si prolunga, forse erroneamente, forse inevitabilmente.
A volte anche la non-risposta finisce per diventare una risposta.
E se all’onda del mare ne succede sempre un’altra,
non è invece così certo che avvenga ugualmente per noi.
Domenica 14 febbraio – “Al di là del guscio”
Si chiama Joseph, ha diciannove anni ed è inglese.
A causa di un grave incidente stradale, quasi un anno fa era entrato in coma.
Lasciato un mondo in cui di Covid si parlava poco e di misure restrittive ancor meno, Joseph ha dormito per dieci mesi.
Si è svegliato solo pochi giorni fa.
Ignaro della pandemia, abituato al passato, è stato catapultato nella nuova realtà.
Ci vedrà come dei marziani? O potremmo vedere noi in lui un marziano disabituato a distanziamento e mascherine? Chissà.
Ad ogni modo, in questa storia c’è un pensiero in particolare che mi scuote: Joseph ha vissuto il processo opposto a quello immaginato da molti di noi.
Quante volte, soprattutto nei momenti più sconfortanti di questo periodo pandemico, desidereremmo addormentarci per essere svegliati una volta che sia tutto finito? Quanto spesso, pur di sfuggire alla quotidianità, viaggiamo con la mente, sfogliamo ricordi, ipotizziamo il futuro?
A Joseph, invece, è capitato l’opposto.
In quei dieci mesi, ha sognato la vita, ricordandola per com’era. Poi ha aperto gli occhi. La bocca può tornare a dar voce ai sentimenti. Eppure, il momento della rinascita ha coinciso con la constatazione di essersi svegliato in un mondo per lui nuovo e caotico, a cui noi siamo già abituati.
“Non ti senti deluso dal ritrovarti in una realtà ancor più fragile di prima?” vorrei domandargli.
Cosa mi risponderebbe?
Non lo so.
A me piace pensare che Joseph si sia svegliato proprio perché, durante gli sprazzi di lucidità del coma, aveva percepito che qualcosa stava accadendo: le visite sempre meno frequenti, le voci distanti, l’ospedale sovraffollato.
Insomma, il desiderio di conoscere la verità ha prevalso sul dolore fisico. Così tanto da trasformare la passività in attività. Così tanto da far scaturire dalla debolezza la necessità della socievolezza.
Svegliarsi e alzarsi per comprendere ed agire.
Manifestarsi.
Restare, restituire, ricevere.
La nostra debolezza ci fa capire quanto sia importante l’altro. Il coraggio ci rende consapevoli di come l’altro abbia bisogno di noi.
La storia di Joseph, per me, rappresenta tutto ciò.
La volontà umana va oltre il dolore. Ne sono sicuro.
Domenica 21 febbraio – “Camminando su Marte”
Marte,
di notte te ne stai in disparte,
come un’anonima forma d’arte.
Mi ricordo di te:
d’estate eri sempre lì,
nella stessa direzione del cipresso vicino casa,
o sopra il faro del porto,
ad attrarre occhi e discorsi su uno dei tanti grandi inquilini del cielo.
Partito a luglio per la missione della Nasa “Mars 2020”, il veicolo rover dal nome Perseverance è approdato sul pianeta rosso lo scorso giovedì.
Per due anni, attraverso lo studio di abitabilità, clima e geologia, si cercheranno forme di vita.
Per conoscere l’esito della missione, si attende la scienza.
Tuttavia, ad affascinarmi non sono solo le straordinarie immagini del pianeta, ma anche i nomi dati dalla Nasa ai tre rover inviati su Marte tra il 2004 e il 2020: Opportunity, Curiosity, Perseverance.
Questi nomi, secondo me, servono a farci capire come le missioni spaziali non abbiano solo uno scopo scientifico, ma anche sociale ed esemplare.
Opportunità. Cercarla, ma anche concederla. L’io e l’altro. La reciprocità. Trovare ed essere trovato. Cogliere il momento per accogliere l’altro.
Curiosità. Una parola che deriva dal latino “cura”. Curiosità significa prendersi cura di qualcosa e qualcuno. Indagare, conoscere, proteggere. Non lasciar andar via chi si desidera.
Perseveranza. Dedicare tempo e capacità. Attendere, vivendo. Anche se il risultato finale appare inarrivabile. Gli scienziati della Nasa hanno impiegato sette anni per realizzare questa missione. Nell’atterraggio, il rover è passato da ventimila a zero chilometri orari in sette minuti.
Perseverare nella curiosità per creare un’opportunità. Fante, cavallo e re.
Il valore di un viaggio compiuto entro questi valori non potrà che arricchirci.
Gli esperti della Nasa hanno fatto tutto ciò nei confronti di Marte.
Gli (in)esperti dell’università della Vita consigliano di fare altrettanto qui sulla Terra.
Sia con i temi al centro delle proprie passioni,
sia con gli altri individui, vicini o lontani, attraenti o insignificanti.
A prescindere dal loro ruolo sociale.
Solo in base alla caratteristica fondativa della persona: essere umano.
Un viaggio sociale del genere, forse, ha lo stesso valore di una grande spedizione su Marte.
PS
Pensiero Spaziale
Approfondendo la ricerca, ho scoperto che il primo rover inviato dalla Nasa su Marte si chiama Spirit.
Che strano, pensare come anche una macchina possa avere uno spirito.
Eppure, secondo me è proprio questo lo scopo di certe missioni: proiettare i migliori valori dell’uomo nelle macchine, che esistono proprio grazie alle capacità umane.
In effetti, il ruolo della scienza in una società altamente tecnologizzata non si dovrebbe fermare alla produzione di sensazionali risultati, ma, se si declinasse il lato umano, si dovrebbe inserire come una materia da cui apprendere modelli e valori.
Un modo per comprendere tutto ciò?
Direi questo fantastico scatto di un tramonto su Marte.
Chissà
come sarà il sapore dell’esistenza,
che valore avrà il silenzio,
cosa si vedrà della Terra,
lì, dove nessun uomo ha ancora messo piede.
Marte, a volte ti penso.
Domenica 28 febbraio – “Il colore dei ricordi”
Non so
se sia un ricordo
o una mancanza.
Indubbiamente, è un frammento. Fatto di immagini ed emozioni. Attimi passati che, per caso, mi sono tornati in mente.
C’era il salotto di casa, circondato dal silenzio, attraversato da una sola ombra.
La carta dei regali, a terra, faceva rumore quando si cercava di evitarla.
Piatti e bicchieri erano seminati in modo disordinato sul tavolo.
Il divano in cuoio, consumato, stropicciato, vuoto, assumeva la forma anonima del fondoschiena di una persona.
Nell’aria rimanevano appese le confidenze tra amici, interrotte dai brindisi.
Poi il profumo intenso degli ospiti che, mischiato all’odore di casa, diventava un aroma sconosciuto.
Ecco ciò che mi è tornato in mente pochi giorni fa: l’attimo immediatamente successivo alla fine di una festa a casa.
Il momento in cui tutti gli ospiti andavano via e si rimaneva soli.
Le voci di sottofondo lasciavano il posto ai rumori, amorfi, della lavastoviglie.
Dove c’era tutto, poi, magicamente, finiva per esserci niente.
Così, emergeva quel sentimento di malinconica riflessione.
Credo proprio che in quegli spazi vuoti e silenziosi si annidi il significato del termine “solitudine”: essere soli sapendo cosa significa stare con gli altri.
Restare volontariamente nel luogo della separazione.
Trattenersi per sentirsi vivi.
Anche quando tutto è apparentemente finito.
È un atto di coraggio. Una condizione fisica e mentale. A volte purificatrice, quando comprendiamo quanto l’altro sia importante per noi. A volte nociva come il cianuro, quando la condizione diventa imposizione e la solitudine si tramuta in isolamento.
Oggi non mi mancano solo le feste.
Mi mancano anche i momenti appena successivi alla fine di una festa. Intimi, casuali, nostalgici.
Nello scatto improvviso tra la pienezza e la solitudine, si ripensava agli attimi più belli appena passati. Se ne capiva l’importanza. Senza neanche guardare al futuro. Solo per conservare un’immagine nella memoria e farla riemergere nei momenti bui. Per creare un ricordo.
Perché, secondo me, è in momenti come questo che il ricordo inizia a prendere forma.
In quell’attimo
appena dopo il finale,
appena prima di tornare a vivere.
Domenica 7 marzo – “Angoli nel vuoto”
A volte è così impercettibile
quell’attimo
appena dopo il finale,
appena prima di tornare alla quotidianità,
che neanche ci accorgiamo se esso esista o meno.
Credo che quell’attimo non sia fondamentale solo per la nascita di un ricordo, come si diceva la scorsa settimana. Piuttosto, questa circostanza indefinita, anonima, in cui il presente prende consapevolezza del passato, capita innumerevoli volte.
Ad esempio, nell’istante che separa la fine di un film dall’inizio dei titoli di coda.
Durante la proiezione, l’io si divide. Mentre il corpo resta nel presente, la mente vaga nell’indefinito. Si dimentica della quotidianità e s’immedesima nella storia. Il buio rende questa esperienza mistica, il buon film la rende spontanea.
Poi, tutto d’un tratto, lo schermo diventa nero. Una frazione di tempo, brevissima e impercettibile, svuotata di immagini e parole. Di comunicazione. Ma solo apparentemente, perché è proprio in quell’istante che si traccia la storia del rapporto tra intimità e finzione.
Il regista rimuove la magia della fantasia e riconduce il pubblico verso la realtà. La quarta parete si disgrega, corpo e mente iniziano a ricongiungersi.
Non capita anche con la musica, nel momento che divide la fine di un brano dall’inizio del brano successivo? E a teatro, nel secondo tra la fine dello spettacolo e gli applausi del pubblico?
Insomma, questi istanti capitano così spesso che siamo incapaci di accorgercene. Ed è un bene. Perché significa che siamo così affascinati da ciò che abbiamo appena vissuto, da non capire l’importanza di quel momento di vuoto.
Eppure, è proprio in quell’attimo sospeso che si comprende di aver proiettato sé stessi in un mondo indefinito, fatto di immagini, note musicali o personaggi cinematografici.
Mi piace notare come questo momento di comprensione sia scandito dal silenzio e dalla passività.
In un mondo in cui, per confermare di esistere, si deve sempre far sentire la propria voce e farsi cogliere preparati, qui avviene il contrario.
Il silenzio. La spontanea onestà dei propri sentimenti.
La consapevolezza di aver vissuto nella spensieratezza.
Di aver vissuto pienamente.
Sentirsi adatti, accettati,
protetti.
Domenica 14 marzo – “La coniugazione del futuro”
Si fa largo tra i pensieri e la realtà,
tra le angosce e le certezze,
persino tra le lezioni a distanza e le passeggiate in mascher(in)a.
A tratti scompare per poi, all’improvviso, tornare.
È l’idea, indefinita e rumorosa, del futuro. Fatta di incognite, decisioni, progetti.
Un’idea così caotica da capovolgere stati d’animo,
così lontana da sembrare astratta.
Soprattutto in questi tempi in cui tutto è, apparentemente, statico.
Sembra che non accada nulla di così determinante in noi da costringerci a prendere una decisione. Se le nostre scelte non possono cambiare niente, conviene starsene adagiati.
Non si riesce neanche a capire quando far emergere la preoccupazione o l’entusiasmo per il domani.
Insomma, per ora c’è il Covid. Il futuro può aspettare.
Eppure, all’orizzonte c’è una scelta che determinerà il percorso della vita.
Il futuro semplice che definisce il futuro prossimo. L’io di oggi in cerca dell’io del domani. Le ipotesi sull’avvenire incontrano le scelte del passato.
Ma dove lo si può cercare questo futuro? Nel presente che ci imprigiona dentro casa? Nelle promesse che ci vengono fatte? Nelle speranze in cui viviamo da ormai un anno?
Non credo.
A volte, forse, mi capita di vederlo, il futuro.
L’altro giorno, per esempio, mentre parlavo con un assistito del centro Caritas in cui sono volontario: c’erano gli occhi, sorridenti e liberi, di un bambino di tredici mesi, seduto sul passeggino. Suo padre era in cerca non solo di un sostegno economico, ma soprattutto di lavoro. E “non tanto per me, quanto per lui,” diceva indicando il figlio, “per garantirgli un futuro almeno dignitoso.”
Ecco, mi piace pensare al futuro con questa immagine: un padre che spinge il passeggino del figlio, facendosi largo tra le vicissitudini dell’oggi, correndo verso un domani incerto e complesso che, nonostante tutto, cerca, desidera, vuole. Non per sé, ma per l’altro. Per la dignità di chi è senza colpe.
E poi gli occhi di quel bambino. Inconsapevoli, gioiosi, spontanei. Una melodia in un mare di rumori.
In casi come questo, vale davvero la pena cercare il futuro,
indirizzando e plasmando il presente
verso ciò che oggi è futuro
e, domani, sarà presente.
Domenica 21 marzo – “La scatola delle divagazioni”
Capitava spesso,
nella routine di un tempo,
ormai vecchia,
coperta dalla foschia,
inserita nella custodia dei ricordi,
a tratti nostalgicamente rievocata, a tratti eccessivamente osannata:
capitava spesso, dicevo, di essere presi dalle futilità. Gli impegni inutili, le ore nel traffico, i contrattempi… insomma, la frenesia dell’agire e la necessità di apparire: “sono vivo e dimostro di esserlo solo se faccio qualcosa e se appaio in un certo modo.”
Vivere il presente senza dedicare tempo al futuro, ai progetti, alle aspirazioni.
Oggi direi che avviene proprio il contrario.
Abbiamo a che fare con un nuovo ordine del tempo:
un presente
così opprimente da chiuderci in casa,
così crudo da farci confrontare con i numeri della morte e della povertà,
così lungo da durare da un anno,
così miope da renderci confusi, distratti, incapaci di decifrarlo.
Tuttavia, questo è un tempo in cui non c’è più spazio per cose apparentemente inutili.
Anzi, questo tempo provoca, nella solitudine, molti vuoti che si tramutano nell’attesa della fine e nella ricerca del nuovo inizio.
Ogni cosa, dunque, acquisisce vitale importanza.
Tutto tenta di evadere dal presente per concentrarsi sul futuro.
Sì, ancora lui.
L’ostinata ricerca del domani: il desiderio di tornare per strada a sfiorarsi;
la scatola delle divagazioni: la smania di affollare una discoteca;
l’oceano di prospettive: la sete di viaggiare.
Direi che un aspetto positivo di questa situazione è consentirci di avere più tempo per, come dicevo la scorsa domenica, “coniugare il futuro”: programmarlo, organizzarlo, cercarlo.
Immaginare come vorremmo essere alla fine di tutto ciò.
Trasformare l’attesa in ambizione.
Così facendo, si riesce persino a vivere con maggiore positività questo periodo.
E se nei ricordi si trovano certezze immutabili,
nelle aspirazioni si cerca il cambiamento. Si vuole conoscere. Si ha necessità di vivere nuovi attimi da tramutare, un domani, in ricordi.
Andare oltre.
Non adagiarsi, ma essere in movimento, anche da fermi.
Solo così troveremo le risposte alle domande che ci poniamo prima di iniziare un percorso.
Di tutto ciò avremo costantemente bisogno.
Soprattutto nei momenti difficili, come adesso.
PS
Pensiero Semplice
Essere in movimento stando fermi.
Difficile, vero?
A tal riguardo, mi viene in mente una cosa che mio nonno paterno amava fare negli ultimi anni: viaggiare attraverso Google Maps.
Lo ha fatto per più di dieci anni, seduto alla scrivania di casa.
Chissà quanti posti avrà girato digitando nomi sulla tastiera,
quanti luoghi avrà sognato di abitare,
quante divagazioni si nascondono nella cronologia di un motore di ricerca.
Non poteva permettersi di viaggiare così lontano, ma non vi rinunciava.
Un po’ come dobbiamo fare noi, adesso, con il futuro. Non rinunciare a cercarlo.
Il pensiero di questa settimana ci ha messo più tempo del solito a nascere ma, alla fine, con questo ricordo, mi ha anche un po’ emozionato.
Domenica 28 marzo – “Danzando sul vulcano”
Poi, senza alcun preavviso,
il pavimento del mondo inizia a sgretolarsi.
Ciò che apparentemente è alla base della vita umana, si rivela il punto più esposto, fragile, insicuro.
Uno squarcio scuote la terra, denudandola. Ecco la roccia fusa e il caldo rovente. Lungo la montagna inizia a sgorgare una fontana di lava. Nell’aria si accumulano chilometriche nubi di fumo.
Uno spettacolo e un dramma. Parallelamente.
Sono le eruzioni a cui l’Etna ci ha abituati in questi giorni di piena attività.
Gli esperti dell’Università di Catania affermano che le ceneri vulcaniche da rifiuto possono divenire risorsa: potrebbero, infatti, essere utilizzate per diverse applicazioni nei settori dell’ingegneria civile e ambientale.
Insomma, da problema diventerebbero opportunità.
Gli (in)esperti dell’Università della Vita si sono domandati se può valere lo stesso anche per gli esseri umani. Cosa accadrebbe se avessimo la capacità di trasformare le difficoltà in occasioni?
Una malattia, una delusione d’amore, una bocciatura, persino la situazione di pandemia in cui ci troviamo ora: siamo in grado non solo di sopravvivere a certi momenti, ma soprattutto di trasformarli in possibilità di cambiamento?
I momenti d’incertezza, ad esempio.
Le fasi della vita in cui si valutano alternative e si sfogliano possibilità. Assaliti dai dubbi, minati dalle titubanze, rimaniamo fermi per timore di scegliere. O, forse, per paura di iniziare.
Eppure, il dubbio non dovrebbe esistere per mettere in crisi.
Il dubbio ci conferma di essere vivi. E di essere in grado di comprendere, riflettere, valutare. Il dubbio è una prova dell’unicità della propria storia. Una storia che solo noi, una volta sciolto il nodo dell’incertezza, possiamo indirizzare.
Il dubbio è la certezza dell’esistenza. Un’opportunità, non un problema.
Io credo che, se fossimo in grado di affrontare ogni momento con la consapevolezza dell’unicità e dell’irripetibilità della vita, saremmo in grado di trasformare
un ostacolo in una scorciatoia,
un freno in una ripartenza,
una sconfitta in una vittoria.
Come la cenere di un vulcano, che
sgretola ma ricompone,
logora ma affascina,
brucia ma acceca.
PS
Pensiero Scolpito
Da rifiuto a risorsa e da dubbio a certezza:
in Giappone c’è una pratica chiamata kintsugi, consistente nel riparare con l’oro le porcellane infrante.
Mostrare con orgoglio una spaccatura. Decorarla ed impreziosirla. Proprio perché da quella mancanza è arrivata la rinascita.
Rendere ciò che prima era una debolezza
la parte più bella.
PPS
Pensiero Promiscuo e Sazio
Con il pensiero di questa settimana, si ferma la rubrica dei “Pensieri della Domenica”.
Domani sarà passato un anno esatto dal primo pensiero. Era nato spontaneamente e velocemente, quello scritto sull’ora legale. Non avevo ancora deciso di dare un ritmo settimanale a tutto ciò.
Eppure, così è avvenuto.
Questa esperienza mi ha fatto capire quanto sia importante darsi delle scadenze e rispettarle con costanza e dedizione. Non aspettare l’ispirazione. Ma cercare, intuire, sforzarsi.
A volte, il risultato che si ottiene è inatteso.
Quanti pensieri sarebbero scivolati via, quante parole non sarebbero state scritte, se non avessi sentito il bisogno di condividerle e il dovere di rispettare questo appuntamento settimanale.
Insomma, oggi si sospende un ciclo.
Spero di avervi fatto compagnia e di avervi fatto “girare il cuscino” dal lato più fresco anche solo per pochi minuti.
Ad ogni modo, la pagina resterà attiva, in modalità che presto conoscerete e di cui sono molto contento e speranzoso.
Grazie.