Pensieri della domenica – autunno 2020

Domenica 27 settembre – “Quadri di un’esposizione”


Settembre. Mese di paradossi e di transizioni, di iscrizioni, di temporali improvvisi, di tramonti in anticipo e albe in ritardo.

A settembre si ritorna. Si mette in ordine. Si fa pace e si litiga. Si attende l’inizio, senza aver scritto alcuna fine.

A volte, capita di fare progetti. Rinneghiamo il sogno perché per sognare è tardi: c’è stata un’estate intera. Ora siamo nel vortice di una realtà cruda, bizzarra, a tratti persino piacevole.

Dalle passeggiate sul bagnasciuga a quelle sul raccordo, chiusi in macchina, per proteggersi prima dal caldo, poi dalla pioggia. E con la prima marcia costantemente inserita, perché niente scorre, tantomeno il traffico.

Dagli aperitivi sulla sabbia alle piazze di quartiere. Le gambe, rintanate sui muretti, ciondolano nell’aria. I ragazzi non sono cambiati. Hanno solo più storie da raccontare, più abbronzatura da mostrare, forse più paure da nascondere.

Indubbiamente, hanno anche più foto da mostrare.

E se, come teorizza uno studio dell’Università di Parigi, gli autoritratti del passato erano indice di fiducia sociale, i selfie contemporanei non esprimono altro se non l’inestimabilità della vita.

Lì annegano istanti infiniti, ricordi incontrollati, sbronze epocali.

L’ago e l’impercettibilità. Attimo.

La clessidra e la pazienza. Tempo.

L’uncinetto e la minuziosità. Dedizione.

Le tele della nostra vita. La mostra dell’intimità di uno qualsiasi. Di uno di noi.

Ricontrolliamo, correggiamo, magari postiamo qualche scatto.

Poi, improvvisamente, un quadratino bianco, vuoto, ci avverte che le foto sono finite.

Che si fa?

Finalmente si toglie il telefono. Si appoggia la testa sul cuscino.

Dunque, dilatiamo il tempo.

Speriamo non solo di vivere nuove esperienze, ma di collezionare altri ricordi nella galleria fotografica.

Confidiamo, nel futuro, di rivivere il passato.

Ci apriamo a qualcosa che ancora non esiste, e che già vogliamo ricordare. Perché non sappiamo farne a meno.

Settembre. L’autunno, violentemente, se lo porta via.

Ma noi, quelle tele intagliate sugli schermi di uno smartphone, ce le teniamo strette. E così i ricordi, rintanati altrove, e gli auspici, riecheggianti nell’anima.

Domenica 4 ottobre – “Studio 44”


Al di là del vetro, le nuvole.

Ottobre è cominciato e il clima non è cambiato.

L’inverno fa a gomitate con l’autunno,

come l’affanno dei ricordi con l’insorgere, prepotente, della quotidianità.

Di fronte a me, sdraiata sulla scrivania, pesante e ingombrante, seducente e storica, una macchina da scrivere Olivetti Studio 44.

L’ho appena recuperata dal soppalco della casa dei miei nonni. Era come rintanata in una valigetta color bordeaux, che custodiva un passato in attesa di essere conosciuto, ammirato, curato. Un passato che, da anni, attendeva il futuro.

Accarezzandola delicatamente, penso che anch’essa abbia una storia da raccontare. Una storia già scritta, intagliata tra i tasti rumorosi, le manopole goffe, i meccanismi ingombranti. Una storia intima, narrata da lettere, rulli, simboli, imperfezioni, colori opachi. Entità concrete e astratte.

Le impronte delle mani dei miei nonni.

Gli spostamenti tra casa e la fonderia di famiglia, magari sotto una pioggia autunnale simile a quella di questi giorni.

Poi i progetti e i contratti di lavoro.

E ancora le lettere, le bozze, le immagini raccontate a parole e scandite da un ticchettio di tasti. Quando, per trovare un ricordo, si scavava nella mente e non nel motore di ricerca di internet.

Ora quell’Olivetti Studio 44 è qui, davanti a me e con me.

Ne sono cambiate di cose.

Io quel passato non l’ho mai visto né vissuto.

Ma sono qui per farle vivere, scrivere e raccontare un po’ di presente. A modo mio.

Ecco, perché, adesso, come per magia, essa conserva ancora un po’ d’inchiostro. Il futuro che il passato attendeva è diventato presente.

Forse, aspettava solo qualcuno che la tirasse fuori da quel soppalco. Voleva respirare, essere toccata da nuove mani, vedere da cosa è stata sostituita, ma soprattutto capire quanto ancora resti preziosa.

A me piace pensarla così.

Personificare un oggetto. Immaginare che possa provare i nostri stessi sentimenti.

Perché, a volte, anche noi attendiamo di essere svegliati, rispolverati, nuovamente custoditi.

Aspettiamo nuovi amici e nuovi incontri.

Nuove storie e nuove emozioni.

Nuove macchie d’inchiostro sul quadernone della vita.

Nuove impronte sulla pelle.

Domenica 11 ottobre – “Il grillo parlante”


Roma in ottobre,

calda di giorno e fredda al tramonto,

gela le case e riscalda le strade.

Drizzate le orecchie, udito il suono inconfondibile e paradossale delle lontane notti estive, scopro che, al piano zero del mio palazzo, abita un grillo.

L’insetto vive in quarantena tra le crepe del legno. Come lo scorso autunno, gracchiando sulle corde vocali, ci abitua a sentire il suo verso per quasi tutto il giorno. Nell’androne, per le scale, nei pianerottoli. Squillante di giorno e debole di sera, dormiente di notte, costantemente solo e spaesato, canta e osserva, vive.

Chiede aiuto? È felice? Vuole dirci qualcosa?

È un caso che smetta di cantare quando sente sbattere una porta e quando qualcuno gli si avvicina? O che, a volte, canti più forte, magari per coprire urla, pianti, rimproveri?

Non lo so.

Il suo verso, riecheggiante e unico, resta incomprensibile.

Dal basso si infiltra nelle case, tra le lenzuola e le cuffiette, sotto il tavolo.

Non pretende di conoscerci. Vuole solo osservare, consolare, ispirare. Accompagnare l’intimità, in tutte le sue forme. Cene, telefonate, lezioni telematiche. Sorrisi, pianti, pensieri.

La sua presenza ci ricorda che un anno è passato e tutto pare cambiato, ma che lui resta lì, al riparo, con noi e per noi.

Immobile, attende.

Un po’ come il nostro sorriso che, in questi giorni, si annida sotto le mascherine.

Esse preservano e accudiscono il sorriso. Tra una tirata d’orecchio e l’altra, lo scolpiscono.

Valorizzano gli occhi. Palpitanti, nostalgici, ansimanti di vita. Spesso socchiusi, talvolta lacrimanti.

Nel frattempo, il sorriso è lì dietro, al sicuro, concesso a pochi, mostrato per sbaglio. Come un grillo dietro una tavoletta di legno.

È in attesa di tempi migliori. Come noi.

È tutto ciò che, ora più di prima, dobbiamo imparare a fare: saper attendere.

È tutto ciò che il grillo,

quotidianamente,

col canto e i silenzi,

col suo anonimato,

con la scrupolosità,

con la consapevolezza di non poter agire

ma con l’obbligo di dover osservare e correggere,

con la fiducia nel domani,

la costanza nel proprio ruolo

e la perseveranza della presenza,

fa.

È tutto ciò che ci vuole trasmettere.

Me lo ha detto lui.

Domenica 18 ottobre – “Tanto rumore per tutto”


Mamma, papà,

oggi non so cosa dirvi.

Il mondo attorno a noi mi pare ingiallito e increspato come le foglie di un albero in autunno.

Conserva le sue infinite sfaccettature a metà tra il bizzarro e l’amaro, la salute e la malattia, le aspettative e le speranze, i volti anonimi e i selfie su Instagram.

Dalla finestra della mia stanza, tutto appare impercettibile, inafferrabile, indecifrabile.

E mentre la vita ci aveva abituato alla legge secondo cui non esiste seconda occasione, adesso lo spettro di un nuovo lockdown incombe sempre più prepotentemente.

“Coprifuoco, boom, record, chiusure”, li sentite anche voi? Quei titoli che, come dinamite, esplodono al telegiornale e rimbombano tra le cene a casa, poi con gli amici e durante le lezioni, fino ad arrivare all’immagine di un futuro plumbeo.

Era inevitabile? O potevamo fare di più?

È assurdo pensare che solo due mesi fa affollavamo le spiagge, maturando speranze e ridendo delle stupidaggini inventate per sopravvivere alla quarantena?

Perché la seconda occasione che ci si presenta è quella di rivivere una situazione unica nella storia ma pur sempre negativa, e non quella di tornare indietro ad una parola non detta, un bacio non dato, un passo fatto troppo presto e uno troppo tardi?

Dobbiamo ancora imparare qualcosa da tutto ciò? E se sì, cosa? Avremo fatto tesoro del passato per non ripiombare nei soliti errori, almeno nella nostra quotidianità?

E ancora, è lecito prepararsi al domani senza sapere cosa ci aspetta oggi?

Non lo so.

Mi sembra sempre di non sapere mai nulla.

Mi pare solo che abbiamo fatto tanto rumore per tutto. E il risultato è stato niente.

Come in una puntata della serie-tv Dark, il futuro sta incontrando il passato. Nel frattempo, il presente si assottiglia. Un impenetrabile enigma senza fine che non può e non deve risolversi solo con un vaccino.

Io cosa faccio?

Guardo cosa avviene attorno a me.

Osservo come tutti siamo impegnati in una faticosa alba che, a tratti, sembra essere un tramonto, interminabile.

Ecco, la vedo:

l’enorme e palpabile,

ma inaccessibile,

differenza

tra adattarsi e sperare,

tra il passivo e l’attivo,

tra lo spazio e l’accapo,

tra tramontare e sorgere.

Domenica 25 ottobre – “Oggi scatta l’ora solare”


Domenica 29 marzo 2020.

Mentre trascorrevamo le giornate in casa, spaventati e annoiati, aggrappati ai telegiornali e ciondolanti sul balcone, di notte scattava l’ora legale.

Per un attimo, un’ora smetteva di esistere.

Dentro quell’ora invisibile, il mistero della contemporaneità: il mondo di ieri finiva e quello di oggi non iniziava.

Nel frattempo, io trovavo il pretesto per scrivere il primo pensiero della domenica proprio sull’introduzione dell’ora legale.

Oggi, 25 ottobre 2020, è una notte di proteste e silenzi, strade bloccate e piazze deserte, bicchieri vuoti e vetri rotti. Il tempo si infiltra in un’Italia spettrale. È scattata l’ora solare.

Le lancette si spostano indietro di un’ora. Si dorme un’ora in più. Farà buio prima.

Sembra proprio che, così facendo, il tempo ci voglia far tornare indietro e far riflettere su come abbiamo impiegato gli ultimi mesi.

In effetti, da quella domenica di marzo, nulla è stato fatto per costruire un mondo migliore, coeso, coerente.

Ci impegniamo a curare i mali di oggi, senza preoccuparci di evitarli domani.

Dunque, il tempo ci ha puniti. Ha dilatato un’ora del presente, lo ha scacciato, ha introdotto il futuro.

Che tipo di futuro?

Indubbiamente, un futuro passato.

Un domani sempre più simile a uno ieri che, fino a poco fa, sembrava ci fossimo lasciati alle spalle.

E adesso? Che fare? Non c’è rimedio?

Forse sì. Si potrebbe lottare contemporaneamente contro e per il tempo.

Gli si può dimostrare che la dedizione, la costanza e la coerenza, la consapevolezza della propria identità, la perseveranza nel cercare di migliorare ciò che è sbagliato, vanno al di là del tempo stesso.

Si può riconquistare l’ora perduta,

riparare il motore di un orologio poco funzionante,

aprire un carillon e dettarne la melodia,

proiettare sul quadrante l’ora del futuro, con la consapevolezza del passato e la puntualità del presente.

Il tripartitismo delle lancette dell’orologio: ognuna funzionale all’altra.

Un’orchestra di orologiai che lavora per compensare, condensare e recuperare.

Queste qualità attendono solo di essere scoperchiate.

La vera, unica, a tratti triste, constatazione?

Ieri come oggi, dipende tutto da noi.

PS

Pensiero Satinato

A furia di rileggere il primo pensiero della domenica, ancora una volta mi vengono in mente le parole dell’avvocato Carlo Bucci che utilizzai in quell’occasione: “A tutti i vivi donerei l’anello che si dice fosse al dito di Re David. Incise sul suo castone tre parole, da leggere tanto nei momenti di crisi quanto in quelli lieti: “Anche questo passerà”.

Ma un dono ugualmente prezioso vorrei farlo a tutti i morti. Anche per essi un anello, recante però un motto diverso: “Accadde davvero”.

Da oggi abbiamo un’ora in più. Cerchiamo di correre più veloci, come se ne avessimo due in meno.

PPS

Pensiero Palesemente Sacrosanto

E se incappassimo in un carillon, quale melodia vorremmo che emettesse?

Fra le tante, indubbiamente quella del più grande pianista jazz degli ultimi anni: Keith Jarrett, recentemente colpito da due ictus e impossibilitato ad usare la mano sinistra per suonare.

Anche per lui si sta proiettando un futuro che guarda al passato? Chissà.

Eppure, sono sicuro che, in quella mano, Keith coltiverà tutti gli insegnamenti del passato, le note musicali ed i tasti del pianoforte, e sarà capace di proiettarli nel futuro, insegnando, trasmettendo, più semplicemente parlando.

Un po’ come dovremmo fare noi con il settaggio del tempo.

Tieni duro, Maestro.

Lo hai detto proprio tu: “è dalle situazioni in cui mi sentivo a disagio che imparavo di più”.

Quel momento è arrivato.

Per noi, invece, è arrivato il momento di ascoltare un altro suo album.

Basta aprire una qualsiasi app musicale.

Tutto il resto è gioia.

Domenica 1 novembre – “La luna che verrà”


Caro amico ti scrivo,

così mi distraggo un po’.

E siccome sei molto lontano,

più forte ti scriverò.

È sabato sera e i ragazzi sono tutti, stranamente, puntualmente, sotto le coperte già a mezzanotte e mezzo.

Non dormono. Soli, aspettano.

Ognuno sa che nessuno, lì fuori, sta facendo qualcosa di diverso.

Capisci? Non esiste quella frenesia che ci spinge ad uscire, confrontarsi, scoprire, rischiare, vivere.

L’insocievole socievolezza di Kant: l’inclinazione a fare ognuno come gli pare, ma la tendenza, vitale, ad associarsi.

Giorno e notte i lavoratori protestano per i loro diritti, i criminali trovano spazio per la violenza gratuita, i poliziotti difendono le città dai cittadini.

A noi, in questo enorme baccano, pare quasi irrispettoso rivendicare il diritto di essere giovani.

Dunque, ci rifugiamo dietro infinità di impegni: videolezioni, lavoro, poi caffè e pausa studio, addominali e flessioni, ricette di cucina, passeggiate.

Vedi caro amico, non vedo più gli innamorati tenersi la mano per strada,

gli amici strattonarsi scherzosamente,

le ragazze scambiarsi baci e abbracci, veri o falsi che fossero.

Sembra che la solitudine sia diventata la caratteristica essenziale dei nostri tempi. Siamo sicuri se siamo distanti.

Ma com’è possibile, così, portare il prossimo a fidarsi di noi? Come convincerlo della nostra sincerità, se non possiamo trasportarlo nella quotidianità?

Caro amico, abbiamo varcato il confine della realtà. Siamo precipitati in una fantasia che pare ci voglia far scontare tutte le bellezze del passato.

Adesso alzo lo sguardo e vedo la Luna.

Se ne sta lì a fare chissà cosa.

È sola. Lo è sempre stata.

Ultimamente, gli esperti dicono che ci sia più acqua del previsto. Cosa significhi non te lo so dire.

Eppure, la Luna brilla. Da sempre e per sempre.

La pazienza dell’infinito e il mistero dell’eternità.

Che sia lì non solo per illuminare il cammino, ma anche per dirci che, in momenti di solitudine come questo, bisogna essere pazienti ma brillanti, come lei?

Ma poi è così lontana come dicono gli esperti?

Boh.

Chi li capisce gli esperti.

Ma chi li ha mai capiti.

A me, caro amico, pare così vicina la Luna, specie in notti come queste.

Domenica 8 novembre – “Il lato nascosto dell’essere”


È un attimo casuale, improvviso, perforante.

Come un colpo di fulmine.

Prima di abbassare la tapparella, in una notte che assume sempre più le sembianze di una solitudine forzata e frustrata, eccola, la Luna.

Ieri se ne vedeva solo un lato. Luccicava, come se sorridesse.

Dopo una settimana, sono ancora qui a guardarla, quasi casualmente. Me la ritrovo lì, affacciata alla finestra dell’Universo. E tanto mi sembra vicina che non riesco a fare a meno di paragonarla alla nostra esistenza.

In effetti, oggi anche noi siamo una frazione dell’intero. Uno spicchio di ciò che potremmo essere, perché quello che possiamo fare si è estremamente ridotto.

Siamo la parte che brilla o quella che non si mostra? Cosa nasconde il lato oscuro? Le relazioni con gli altri, la vita di ieri, quella di domani? Invece il lato che, brillando, si mostra? È parte di noi?

All’ennesima domanda senza risposta, cerco una giustificazione nell’adolescenza e un rifugio nella scrittura. Dunque, torno alla pagina bianca di un pensiero non ancora nato.

Due immagini mi frullano nella testa.

Ragusa, Sicilia. Un passante trova un neonato in un contenitore abbandonato vicino ai cassonetti.

Smirne, Turchia. 96 ore dopo il sisma che ha stravolto la città, Ayda, una bambina di quattro anni, stringendo la mano del suo soccorritore, esce vittoriosa dalle macerie.

Storie inimmaginabili, indecifrabili, irraggiungibili.

Il passaggio, inatteso e crudele, dalla luce alle tenebre. Poi il ritorno alla luce, mai creduto ma sempre sperato.

Riemergere dall’acqua dopo un tuffo troppo profondo.

Riaffiorare dalla terapia intensiva dopo il confronto col Covid.

Sarà la stessa sensazione che hanno provato quei bambini?

E se fossero proprio loro la metà che andiamo cercando?

Se fossimo noi il braccio del pompiere o la mano del passante che scoperchia una vita in cerca d’aiuto?

Se, tolto quel masso, scoprissimo che quel bambino è il nostro specchio che attendeva di essere soccorso?

L’altra metà: quella che deve uscire dai detriti e dalla polvere, dal buio.

Il lato nascosto della Luna che ancora non conosciamo.

Cosa c’è dietro l’oscurità? Una parte di noi ancora inesplorata, o il prossimo?

PS

Pensiero Sapido

Secondo me, dietro l’oscurità c’è il prossimo. E, con lui, ci siamo noi.

Dialogare, aiutare, ascoltare, consigliare.

Chi, dietro l’oscurità, trova tutto questo, trova anche sé stesso.

E secondo voi?

Domenica 15 novembre – “Il cuore dell’aurora”


Los Angeles, California.

Rodeo Drive, Hollywood e Santa Monica. Shopping, cinema e mare. Una realtà colorata di blu e rosso, armonia e perseveranza, mare e sangue, democratici e repubblicani.

L’affascinante puzzle dell’ignoto che componiamo quando sogniamo di fuggire.

Pochi giorni fa, nella città degli Angeli è avvenuto un fatto curioso. Un elicottero che trasportava un cuore è precipitato in fase di atterraggio. L’organo è stato immediatamente recuperato ma, mentre veniva portato in salvo, è scivolato dalle mani del medico. Eppure, il cuore è sopravvissuto alla duplice sventura: dall’ospedale fanno sapere che è stato trapiantato con successo e il paziente sta bene.

Un miracolo? Un colpo di fortuna? Chissà.

A me piace pensare che quel cuore rappresenti pienamente il nostro stato attuale.

Anche noi, qualche mese fa, mentre ci preparavamo ad approdare sulla pista di atterraggio del nuovo mondo, siamo improvvisamente collassati.

Il virus ci ha bloccati, scossi, impauriti.

Abbiamo tentato di rimediare attraverso sotterfugi ed apparenti ritorni alla normalità, ma siamo caduti nuovamente. O, forse, non ci eravamo mai realmente rialzati.

E adesso l’ultima fase, la più bella, quella del lieto fine, non accenna a palesarsi.

Costantemente scossi dalle notizie, protetti da una finestra che affaccia contemporaneamente sul mondo e sul cielo, sulla quotidianità e sull’infinito, attendiamo il lieto fine.

Questa storia ci insegna che dobbiamo attenderlo con consapevolezza e fiducia.

La consapevolezza che quel cuore, anche se dovrà rinunciare ad alcune cellule, sarà trapiantato con successo.

La fiducia che noi, anche se dovremo rinunciare a qualche compagno di viaggio, vedremo la luce.

Così, un bel giorno, arriveremo sulla pista di atterraggio.

Qui il vento tira forte, il sole batte e, toh, c’è anche il paziente che attende il nostro cuore: è il nuovo mondo. Quello che disegniamo e coloriamo nella mente, in cui proiettiamo armonia e coerenza, accoglienza e pace, benessere e progresso, arte, sanità e istruzione, giovani e anziani.

Eccolo, il cuore dell’umanità. Batteva prima e tornerà a battere. Aspettiamo solo di consegnarlo al nuovo paziente.

PS

Pensiero Saturo

Largo della Libia.

Due naufragi in quasi 24 ore. Per ora, 74 morti, fra cui un neonato di sei mesi.

Decine di cuori che, improvvisamente, smettono di battere.

Anch’essi hanno molto da insegnarci.

Tenacia, dignità, coraggio, speranza.

Un cuore che, mentre fugge dal suo corpo perché non può più vivervi, cessa di battere, ha eguale dignità di un cuore che resiste alle sventure.

I cuori delle migliaia di migranti che hanno perso la vita in questo modo, non possono continuare a riecheggiare solo nell’abisso dei mari.

Devono rimbombare anche nelle nostre menti, e costringerci a riflettere, analizzare, proporre, intervenire concretamente.

Domenica 22 novembre – “Il personaggio dal labbro screpolato”


Ogni sera, prima di andare a dormire, si spalma un po’ di crema sul viso e aspetta un paio di minuti affinché faccia effetto.

Un tempo che può essere infinitamente breve o smisuratamente lungo: dipende da come lo s’impiega.

A volte, lo passa davanti allo specchio: si osserva da più angolature, pettina i capelli, cerca di intercettare le sfumature di colore dei propri occhi.

Poi gli capita di riflettere.

Pensa a quanto spesso, ultimamente, si ritrovi a vivere in una condizione di attesa. E a come ogni aspetto della vita abbia preso una nuova forma, divenuta ormai naturale, scontata.

L’amore, ad esempio.

Il desiderio della metà perduta di noi stessi.

Un desiderio che implica il soggetto e l’intersoggettività: amare ed essere amati.

Tra quarantena e timore del contagio, oggi l’amore si è spogliato del rapporto col prossimo. Da impulsivo, intimo, intersoggettivo si è rivestito di riflessione, ricordi, soggettività. Incastonatosi nel presente, lo proiettiamo in un futuro indefinito.

Ma è questo l’amore?

Non dovrebbe forse essere irragionevole, precipitoso, irruento?

E se così è, allora, in quale azione possiamo trovare l’amore, oggi? Dove, se viviamo nell’attesa e nella speranza del futuro?

Può essere atteso, l’amore? È un pulsante che accendiamo o una molla che scatta? E se adesso fossimo pronti ad accoglierlo, perché bisogna aspettare momenti più sicuri per penetrare nell’intimità di una persona?

Ah, la contemporaneità e i suoi problemi. Come ci riflette il nostro personaggio, di fronte allo specchio del proprio bagno! Pare un filosofo, un don Giovanni o persino il creatore dell’amore stesso.

E non si accorge che la crisi è tutta qui: nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere.

In questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati.

In questo interregno che, per il nostro personaggio, è lo specchio del bagno.

Tutto, qui, è in vita e senza vita, possibile e impossibile.

Scaduto il tempo, si sciacqua il viso e si osserva nuovamente allo specchio.

Ecco, lì, all’ombra dell’interregno fra la vita e la vita riflessa, sotto il labbro leggermente screpolato, si annida il nemico temuto: un crudele e imperterrito brufolo.

Domenica 29 novembre – “Il luna park delle illusioni”


Domenica 29 novembre 2020.

Dieci anni fa moriva Mario Monicelli, uno dei più grandi registi italiani del Novecento. Autore di film come Amici Miei, Brancaleone, La Grande Guerra, I Soliti Ignoti. Si tolse la vita a 95 anni, gettandosi dalla finestra di un ospedale.

La notizia mi provoca un brivido lungo tutto il braccio.

Dietro la risata genuina e spontanea, i suoi film celano un sentimento unico di amarezza, nostalgia, malinconia, percepibile dalle note di una fisarmonica, dagli occhi o dalla battuta di un personaggio.

Lo spettatore è in preda ad una sensazione di pienezza e vuoto allo stesso tempo.

La pienezza della vita, del lato comico, delle amicizie, delle avventure.

E poi il vuoto della solitudine, del ricordo e della nostalgia che sempre ci circonda.

Ecco cosa c’è dietro il brivido che mi percorre tutto il braccio. Pienezza e vuoto, risate e lacrime, gioie e dolori. Tutto racchiuso in attimi, in pomeriggi casuali e serate organizzate, nella famiglia, nelle amicizie e negli amori. Nella quotidianità. A metà fra il comico e il nostalgico.

Il luna park delle illusioni: la vita secondo Monicelli.

L’insegnamento che mi ha trasmesso.

Il motivo per cui, anche dopo una semplice ma piacevole serata con gli amici, il desiderio di rivivere quel momento mi attanaglia non appena resto solo. Penso e ripenso, mi rigiro nel letto, come fossi in gabbia. Eppure, quanto ci si è divertiti.

Ecco perché ora, anche in un momento così storicamente difficile, mi guardo intorno con un pizzico di nostalgia e con una voglia sfrenata di fare tutto il possibile. Per il futuro. Perché non sappiamo cosa può riservarci. Perché non siamo solamente noi a deciderlo. O forse per la paura di perdersi qualcosa del presente e di non poterlo riacchiappare domani. Perché ogni momento è unico.

Per me, il suo suicidio resta un mistero che, credo, riuscirò a capire solo quando mi affaccerò alla vita futura.

Quando inizieranno a mancare i punti di riferimento, i compagni di vita e di avventura.

Quando ci si sentirà fuori tempo in un’orchestra che suona solo per sé.

Come sempre accade, pensando al Maestro non scappa solo una risata, ma anche, e soprattutto, una lacrima.

PS

Pensiero Seducente

Un altro grande interrogativo che,

attraverso il film Amici Miei,

Monicelli ci ha lasciato:

“Ma poi è proprio obbligatorio essere qualcuno?”

Un interrogativo che, a volte, nelle giornate più cupe,

si trasforma in un tormento,

e in un insegnamento.

Domenica 6 dicembre – “Con gli occhi fra le nuvole”


Capita, a volte.

Soprattutto in un periodo come questo, composto da spigoli e intercapedini. Sospesi nel presente, in balìa dell’attualità, scossi dall’ultima notizia o dalla vibrazione del telefono. Vaganti tra i ricordi di uno ieri appena trascorso, in cerca dello stato d’animo adatto per il futuro: timore, curiosità, fiducia?

Capita, a volte, dicevo, di alzare lo sguardo verso il cielo.

Seguire i disegni tracciati dalle nuvole.

Osservare una stella.

Cercare la luna.

Individuare un aereo che viaggia verso chissà quale meta.

Capita, insomma, di inseguire nuove prospettive. Alimentare l’esistenza attraverso la speranza, escludendo le aspettative.

Come se fuggire fosse uguale a morire.

Così, passiamo il tempo a guardare le nuvole.

Vanno e vengono.

Ne veneriamo la forma. Prima sono amorfe e indefinite. A poco a poco diventano poetiche, dense, profonde.

E improvvisamente, dopo un attimo di distrazione, non le vediamo più.

Ma che fine fanno le nuvole?

Non so dare, e non voglio tantomeno cercare, una spiegazione scientifica.

Piuttosto, mi piace pensare come le nuvole che scompaiono oggi le rivedremo domani. Magari casualmente, in un’altra città, circondati da persone diverse, da una nuova prospettiva. E, una volta individuata la nostra nuvola, non potremo fare a meno di pensare alla prima volta in cui l’abbiamo vista. Al passato che, adesso, è presente.

Secondo me, certi aspetti del futuro sono già presenti.

I primi e i più importanti siamo noi stessi.

Coloro da cui dipende il presente e il futuro.

Coloro da cui dipende l’esistenza di quella nuvola. Perché, se non alzeremo lo sguardo al cielo, quella nuvola non esisterà mai.

Ma bisogna augurarsi di avere tempo di guardare le nuvole, oppure di avere una vita così piena da non potersi concedere alcuna contemplazione dell’infinito?

Chissà. Spesso il futuro incute tanta paura che vorrei farlo sparire come si fa con una nuvola. E poi, senza accorgersene, realizzare che il futuro di oggi è diventato il passato di domani. Gioire per la pienezza e la compiutezza del tempo.

Capita, a volte, dicevo.

Che dicevo?

Boh.

Ecco, passa un altro aereo.

PSB

Pensiero “Un sacco bello”

E quella nuvola lì? Che strana forma, pare una piuma.

Carlo Verdone definisce il cielo “l’umore di Dio”. E aggiunge:
“Ogni volta che vedo una delle mie foto fatte alle nuvole, mi rassicuro.
Perché sento che il cielo è vita,
che nel cielo c’è sempre vita.”
La nuvola nella fotografia me la sono ritrovata sopra la testa
molti giorni fa, in riva al mare, con gli amici.
La associo ad una penna d’oca, alla scrittura, ad una parte di me.
Così, non ho esitato a fotografarla.

Domenica 13 dicembre – Tre sfumature di rosso


Dicembre,

le città diventano fiabesche:

i bambini scherzano con le proprie ombre,

gli adulti si rincorrono sulle giostre,

noi, costantemente indecisi e malinconici,

sempre di fretta.

Scorriamo le vetrine dei negozi, puntando il dito verso oggetti in esposizione. E siamo insicuri a causa dei messaggi dati dall’informazione: prima consigliano di fare acquisti nei negozi fisici affinché le piccole imprese ripartano ma, non appena le strade dello shopping si affollano, ci rimproverano.

Che fare?

Nel dubbio, automobilisti e pedoni, le persone comuni, tirano dritto.

Si fermano solo davanti al semaforo rosso.

Quel segnale stradale che può durare un’eternità o una frazione di secondi, ma che sospende il tempo, interrompe i flussi, spezza la catena della frettolosità.

Ci costringe a fermarsi.

Un po’ come questo 2020, pandemico, caotico, scontroso.

Un anno che è stato il semaforo rosso della normalità.

Un semaforo così potente e frastornante da aver reso vane tutte le gradazioni più accese del colore rosso, persino quelle del Natale.

Gli addobbi e i festoni, distributori gratuiti di favole, persino il colore del cappotto di chi gioca a interpretare Babbo Natale, eterni bambini: tutto colorato di un rosso fiacco.

Guardarsi intorno significa guardare dentro sé stessi.

Anche noi, nel corso di quest’anno, abbiamo assunto più sfumature del colore rosso.

Inizialmente, il fucsia: vivevamo nella rabbia provata nei confronti di un microbo sconosciuto, nella vergogna per essere additati come appestati.

Poi siamo passati al ruggine, la gradazione del rosso simile al colore del ferro ossidato, privato di lucentezza.

Lentamente, però, abbiamo imparato ad adattarci.

Ci siamo rinnovati.

Adesso ci vogliamo riscattare.

Un passaggio che si compie proprio grazie a quella tonalità di rosso che rappresenta l’audacia e la passione, l’attesa vissuta con perseveranza.

La sfumatura della speranza e dell’amore.

La gradazione che comanda tutte le altre.

La tonalità che il semaforo della normalità non riuscirà ad annientare.

Ora che ci avviciniamo alla fine,

al futuro tanto immaginato,

basta guardarsi intorno e dentro

e cercare

il colore rosso

per realizzare tutto ciò.

Domenica 20 dicembre – “Ricordati di me”


Uscito dal tunnel del sonno, infinito e misterioso, mistico, apro gli occhi e allungo la mano verso il comodino per prendere il telefono.

Tra uno sbadiglio e una stiracchiata, controllo la rassegna stampa mattutina: una finestra bianca, colorata da lettere in grassetto, che affaccia su fatti, nomi e numeri, vita e morte.

Proprio in fondo alla pagina, una notizia fulminante: “come fa il cervello a immagazzinare i ricordi?” recita il titolo dell’articolo.

Prima che ogni rivelazione scientifica smentisca la fantasia, tolgo lo sguardo dallo schermo e inizio a pensare, immaginare.

Cosa può servire al cervello per immagazzinare un ricordo?

Un diario? Beh, in effetti, scrivendo si ordina l’esistenza.

Le foto? Sì, sono un buon modo per far viaggiare la memoria in ordine cronologico.

Eppure, secondo me, non è proprio così che installiamo i ricordi nella mente.

Il cervello non lavora forse meglio quando lo si sforza, quando si tenta di riafferrare fasi della vita, esperienze lontane, volti di persone mai conosciute ma sempre desiderate, senza servirsi di diari e fotografie?

Navigare nel dubbio e tentare di recuperare un attimo passato, ripercorrere strade mai prese e rivivere sogni, acciuffare un ricordo vivendone cento.

A volte, basta persino una casualità: l’odore di cucinato, la forma di un albero, il pavimento di una casa, un suono. Il “ricordo involontario” di cui parlava Proust. Dettagli del presente che spalancano il passato. La ricerca e il cervello sostituiti dalla circostanza e dal cuore, che riprende a battere come se vivessimo ancora in quell’attimo.

Il ricordo.

Sette lettere che contengono milioni di frammenti e sfaccettature,

gallerie di occhi e sguardi, spazi e immagini, persone,

echi di parole,

sapori di stagioni passate,

note musicali.

Si spalancano storie.

Si scardina dall’interno la propria vita, come una radiografia.

Adesso la luce del sole trapassa dalle tapparelle.

Un’altra giornata è in procinto di iniziare.

Altri ricordi sgattaioleranno fuori dall’anima, casualmente o volutamente, per essere raccontati, rivissuti, riamati, come fosse la prima volta.

E vivremo attimi che, un giorno, diverranno ricordi.

PS

Pensiero Scientifico

Cosa diceva l’articolo riguardo il cervello e i ricordi?

“Nuove esperienze attirano neuroni sparsi nell’ippocampo che esprimono due geni.

Essi consentono ai neuroni di mettere a punto gli input dai cosiddetti

interneuroni inibitori, cellule che smorzano l’eccitazione neuronale, …”

Mah, è tutto già così complicato che quasi rischio di riaddormentarmi.