Pensieri della domenica – estate 2020

Domenica 21 giugno – “2020: Odisseo nello spazio”


Analizzando i dati della missione Kepler della NASA, gli esperti dell’Università della Columbia Britannica hanno stimato che all’interno della Via Lattea potrebbero esserci sei miliardi di pianeti come la Terra, simili per conformazione, temperatura e pressione.

Sei miliardi. Non è quantificabile o immaginabile. Le parole e le cifre non sono adatte. Fermiamoci a pensare.

No, è troppo complicato. Meglio divagare.

In effetti, non appena giunta la notizia, gli (in)esperti dell’Università della Vita hanno pensato che Dio, se è vero che ha creato la Terra in sette giorni, pur di non impiegare centoquindici milioni di anni per creare altri sei miliardi di pianeti simili al nostro, avrà fatto un semplice copia e incolla.

“Un tale, che si fa chiamare Gesù, sta girando per le strade delle città, affermando di essere il figlio di Dio” è la notizia che aspettano di sentire tutti i cristiani da uno dei pianeti. E sperano che, non appena finito di visitare i sei miliardi di mondi, il figlio di Dio inizierà il secondo giro.

Gli (in)esperti sono poi passati a domandarsi cosa dovesse accadere se, in un futuro (non) troppo lontano, questi pianeti saranno visitabili. Quale senso di angoscia prenderà l’Odisseo moderno, sempre in cerca di nuove scoperte, la cui vita è infinitamente breve? Visitare il tre-miliardesimo pianeta scoperto proprio ieri, i templi di Atene, o forse optare per una rilassante vacanza nell’esotica Terracina?

E se mai scoprissimo che gli abitanti degli altri mondi hanno sembianze simili alle nostre? E che magari hanno brevettato le nostre stesse scoperte, tra scienza, arte e tecnologia? Come si stabilirà chi ha creato per primo cosa? Gli (in)esperti non hanno dubbi: ci appelleremo al diritto d’autore e, se non bastasse, distruggeremo le statue delle icone degli altri pianeti. E allora, guerra all’ultima statua sia!

Eppure, eccolo qua: il pianeta Terra. Osserva, studia e ammira, scrutando dalla finestra che affaccia sulla Via Lattea. E coltiva speranze: presentarsi, un giorno, agli ipotetici abitanti di quei pianeti, e augurarsi che, almeno loro, abbiano capito qualcosa in più di noi di ciò che succede qui sulla Terra.

PS

Pensiero Serale

Che poi, chissà come saranno fatti gli ipotetici abitanti degli ipotetici pianeti. Avranno corpi perfetti come i nostri? Ma soprattutto, chi stabilisce quando un corpo è perfetto? Bastano due gambe e due braccia, o un’antenna sulla testa come ET? Non penso. Alex Zanardi ci ha insegnato che si può essere perfetti anche senza tutto ciò. Ci ha insegnato che, per fluttuare, basta un cuore che guardi al futuro, alla vita.

Domenica 28 giugno – “Ansedonia”


Troveremo il modo per impiegare le notti,

che siano sette o cento.

Con i ricordi faremo a cazzotti,

e non ci importerà di alcun fallimento,

perché di futuro saremo ghiotti.

Sdraiati su un lettino diremo “ancora un momento”,

perché le stelle ci sembreranno lingotti.

PS

Pensiero Salato

Scritto di fronte a un tramonto,

con il sole alle spalle e il mare di fronte,

mentre fantasticavo su come passerò le mie prossime serate.

Domenica 5 luglio – “Sapore di mare”


Terza domenica d’estate. Promontorio maremmano. Le cicale cantano ininterrottamente. Il sole batte e il vento, a tratti, tira forte.

In lontananza, il mare. Apparentemente nulla sembra cambiato. La spiaggia è affollata e gli ombrelloni ravvicinati come sempre. Ma… le norme sul distanziamento?

Indaghiamo.

Così, un (in)esperto dell’Università della Vita, armato di costume e taccuino, va in spiaggia. In primis, vuole capire come procede la ripresa.

“Bene: da anni non si vedeva così tanta gente a inizio luglio” risponde il parcheggiatore del lido mentre dirige il traffico con l’agilità di Alberto Sordi ne “Il Vigile”.

Il litorale è gremito: le voci dei bambini e delle madri rimbombano sugli scogli, i fratelli più grandi, infastiditi, alzano il volume della musica in cuffia.

Fatta eccezione per le mascherine al chiuso, non pare cambiato nulla. Eppure, il lockdown è finito solo due mesi fa.

Allora l’(in)esperto è assalito da un dubbio: bisogna essere contenti o no di tutto ciò? Si deve temere per una possibile seconda ondata, o esultare per il ritorno alla normalità? E poi, in quale realtà si riflettono i dati della crisi economica? Nelle spiagge e nelle piazze affollate, o nelle file alla mensa dei poveri?

Insomma, è stato davvero necessario applicare il modello Italia, unica al mondo insieme a Cina e Spagna, e chiudere tutte le attività per un certo periodo, se a distanza di soli due mesi possiamo riempire gli spazi senza alcuna conseguenza fisica? Oppure è grazie a quelle restrizioni che possiamo già godere di spiagge e locali?

Da un lato, i numeri della pandemia sotto controllo, almeno nel nostro Paese; dall’altro, i dati di una crisi economica che ci dicono esploderà definitivamente in autunno.

L’(in)esperto scuote le spalle. Non sa e non vuole darsi una risposta. Sarebbe azzardata.

Quindi stende il telo sulla sabbia ed è pronto a rilassarsi. Poi, tutto d’un tratto, una voce femminile gli ricorda di rispettare il distanziamento (a)sociale. L’(in)esperto annuisce e si sposta di trenta centimetri.

Adesso sì che la signora non sarà contagiata dal virus del dubbio.

E tutti vivremo spiaggiati, distanziati e (forse) contenti.

Domenica 12 luglio – “Inseguendo quel suono”


Gli esperti dell’Università di Kyoto affermano che l’atmosfera della Terra, vibrando simultaneamente, produce un suono musicale acuto specifico.

Ecco perché, di notte, un (in)esperto dell’Università della Vita, rintanato nel solito promontorio maremmano più per studiare che per divertirsi, circondato da un silenzio con l’eco e da una natura dormiente, si aggira qua e là, desideroso di intercettare quel suono misterioso. Tuttavia, capisce ben presto che ogni tentativo è vano.

E allora, tanto per smuovere le onde dell’atmosfera terrestre quanto per sradicare i pensieri più reconditi, rispolvera un modo per impiegare le notti. Guardare il cielo e ascoltare la musica.

Contrastare il silenzio di un’estate che è già qui, ma che deve ancora sbocciare.

Smorzare il canto delle cicale con le note di una chitarra prima e con il flow di un pezzo rap dopo.

Ed immaginare che ci sia qualcuno con lui ad ascoltare quei suoni.

Forse per sentirsi meno solo. Forse per sperare che qualcuno apprezzi i suoi gusti musicali. Che sia un uomo o un animale, una bouganville o una lucertola.

O forse perché questa notte c’è troppa foschia e il faro di Civitavecchia non si vede. Perciò si va alla ricerca di un altro faro: quello della giusta nota nella libreria sterminata di Spotify.

Poi si alza lo sguardo al cielo per cercare le costellazioni, disegnare nell’oscurità, unire i puntini luminosi. Allora riaffiorano gli insegnamenti del padre e del nonno, quando, sdraiati su un terrazzo in cotto, si “reggeva il cielo” e si osservava l’infinito, unendo il passato al presente, i ricordi alle ambizioni.

E si cerca anche la sua di stella, una delle ultime arrivate, quella del Maestro ispiratore di tutto, accompagnatore della vita, protettore della sensibilità, voce delle emozioni più diverse e sconosciute. È una stella che assume la forma di un oboe e di una tromba, poi di un pianoforte e di una bocca che fischia. È quella di Ennio.

Tutto d’un tratto, scocca la mezzanotte.

La musica deve essere messa a tacere per non disturbare la quiete pubblica.

Eppure,

Sdraiati su un lettino diremo “ancora un momento”,

perché le stelle,

e le note musicali,

ci sembreranno lingotti.

Domenica 2 agosto – “Un mare di prospettive”


Traghetto Civitavecchia-Olbia.

Qualche giorno fa.

Circondato da un silenzio scandito dalle onde del mare, incapace di addormentarmi, infastidito da una scomoda poltrona, alla ricerca del mare e dei delfini, o forse della connessione internet, trovo rifugio sul ponte della nave.

La terra è ancora vicina. E, con lei, anche le sue luci. Osservandole, ne individuo alcune che hanno la caratteristica di lampeggiare alternativamente, come si trattasse di una pista di atterraggio per aerei. Riflettendo, intuisco che quelle luci sono le stesse che vedo dal mio caro promontorio maremmano e di cui non ho mai capito l’origine.

Improvvisamente, realizzo di trovarmi dalla parte opposta al mio mare.

Di aver cambiato prospettiva.

Di navigare nel mare che avevo sempre visto essere navigato da altri.

Di essere non più attore ma spettatore.

Di vivere nella presunzione di aver realizzato uno dei più grandi desideri della vita: vedersi vivere.

Dall’attività alla passività.

Quando meno te lo aspetti.

La potenza di un’imbarcazione.

Il fascino dei puntini luminosi.

La vastità del mare.

Di colpo realizzo il significato e la necessità di viaggiare: cambiare prospettiva. Allenare il cuore a vedere la propria immagine proiettata anche lì dove non esiste uno specchio. Guardare la realtà di sempre con gli occhi di un visionario. Perciò viverla in modo sempre nuovo. Perché un visionario non può essere abitudinario.

Nel frattempo, la terra si allontana e le luci svaniscono.

Il vento tira forte e la salsedine si attacca ai capelli.

Dunque, faccio per rientrare.

Solo allora mi accorgo di due bambini che, poco lontani da me, in un angoletto, giocano col telefono. Forse si stanno perdendo lo spettacolo del mare. Forse non dovrebbero rimbecillirsi davanti ad uno smartphone. Poco importa. Si sono ritagliati il loro angoletto di purezza e spensieratezza. L’angoletto dell’infanzia, in cui tanti di noi, spesso, vorremmo vivere anche solo per un’ora.

Perché, in fin dei conti, il problema è sempre questo. Quando si è bambini si vuole stare coi grandi per sentirsi grandi. Quando si è grandi si vuole stare coi bambini per non sentirsi troppo grandi.

Domenica 9 agosto – “Allo spacco della Regina”


Surfisti e pescatori,

se ne stanno lì come incalliti seduttori,

dalle onde palleggiati,

dagli amici a riva desiderati,

perché con la loro perseveranza

son sicuri che ne avranno in abbondanza

di pesci e di onde,

di more e di bionde,

e dall’acqua salteranno fuori

solo quando sapranno addomesticare anche gli amori.

PS

Pensiero Serale

Beirut, Libano. Una capitale martoriata e appesantita dal corso della storia e, per ultimo, da una fortissima esplosione che ha annientato case, uffici e strade. Passato, presente e futuro. In una parola sola, la vita.

Tra le macerie della propria abitazione, una donna dai capelli bianchi suona il suo pianoforte. Inarrestabile, incontenibile e incessante. A finestre rotte e tende graffiate da cocci di vetro, la melodia della speranza riecheggia per la sua città.

Poi una tata che, non appena l’esplosione deflagra i vetri della finestra della casa in cui lavora, abbraccia i suoi tre bambini in segno di protezione. Attimi che legano indissolubilmente delle vite, per sempre. L’abbraccio che protegge un destino.

Un’altra donna, a ventiquattro ore dall’esplosione, è stata trovata viva sotto le macerie. E, sollevando una mano, ha sollevato le speranze di non aggiungere un altro nome a quello delle vittime.

Riemergere dal mare come pescatori e surfisti, o dalle macerie come queste tre donne libanesi, e affacciarsi all’orizzonte.

Dalle tenebre del finito allo sguardo rivolto lì, dove l’occhio non arriva. Al domani.

Saltare fuori e tornare alla vita.

È ciò che, prima o poi, tutti dobbiamo fare.

È ciò che, mai come oggi, spetta agli abitanti di Beirut.

Questo 2020 ce lo sta chiedendo fin troppe volte. Ma non importa. Con la forza e la perseveranza dell’umanità vinceremo anche queste battaglie.

E una bella sera, con la luna che si specchia sul mare, pescando o aspettando l’onda perfetta da cavalcare, sospireremo soddisfatti, e poi brinderemo, brilleremo e combatteremo non solo per il domani, ma ancor più per chi non ce l’ha fatta.

Domenica 16 agosto – “Amore che vieni, amore che vai”


Poi, all’improvviso, in mezzo ad una schiera di adolescenti spiaggiati e subdolamente abituati alla vita, un bambino.

È nero come la sua ombra e piccolo come un granello di sabbia.

È il figlio di un venditore ambulante.

E con l’innocenza di chi conta ancora i propri anni sulle dita di una mano, starà pensando che suo papà sia l’unico grande lavoratore in mezzo a questa schiera di amorfi bagnanti.

Nascosto dietro la schiena del genitore, con occhi tondi e castani, il bambino guarda il mare più di un bagnino. Con timore perché gli sembra lo stesso mare difficilmente attraversato per venire in Italia? O con stupore perché non ha mai visto qualcosa di così infinito?

Non lo so. I suoi occhi nascondono l’intero copione di una vita difficile ed io sono incapace di decifrarli.

Fra i suoi coetanei, una bambina bionda, piccola come lui, lo saluta con la mano. Cerca di attirarne l’attenzione, senza alcun apparente motivo. Lui si volta ad osservarla più volte, ma non riesce ad andare oltre. La mano del padre, inconsapevolmente, lo trascina via.

Ma sono certo che si sia innamorato. Quegli occhi li conosciamo bene. Tutti. Esperti e (in)esperti dell’Università della Vita.

E, più che innamorato della bambina, sono convinto che si sia innamorato di quel gesto di attenzione rivolto esclusivamente a lui. Gratuito e sincero, spontaneo. Come se la bambina volesse domandargli direttamente perché fosse lì in quel momento.

Spesso sono i gesti a comunicarci l’indole di una persona.

Accogliere ed essere accolti.

Dall’attivo al passivo. Chi compie una di queste azioni, finisce sempre per compierle entrambi. Accoglie e si sente accolto, nell’anima.

L’accoglienza e l’impossibilità.

La mano della bambina che, nonostante gli amici e la famiglia, l’ombrellone e il lettino, cerca lo sconosciuto. La mano del bambino che, nonostante le difficoltà e le incognite, la sabbia che scotta e il sudore sulla fronte, tiene stretta la mano del padre.

Perché, in fondo, per tutta la vita andremo alla ricerca di quella sicurezza e protezione che troviamo solo nelle mani dei genitori. E quel bambino tutto ciò lo ha già capito. Forse più di chiunque altro.

Domenica 23 agosto – “Lo scarabeo che sussurrava agli uomini”


Gli esperti dell’Università di Washington hanno installato una minuscola videocamera sul dorso di uno scarabeo per monitorare più facilmente determinati ambienti.

Non appena giunta la notizia, gli (in)esperti dell’Università della Vita hanno aggiunto questo strumento alla lista di tentativi (spesso falliti) della tecnologia per carpire al meglio l’essenza dell’animo umano.

Prima i computer e internet, poi gli smartphone e i social, infine le app per tracciare gli spostamenti. Abbiamo cercato di conoscere i desideri più reconditi degli altri: la vacanza dei sogni vissuta tramite gli influencer e l’arredamento per la casa visto dal vetrino del telefono, la categoria degli “amici più stretti” e i “mi piace” strategici, tramite un pollice che si allunga sullo schermo… ma non ci siamo mai riusciti.

Il prossimo è rimasto un enigma indecifrabile di fronte ai nostri occhi, in grado di spiazzarci improvvisamente, nella vita reale e in quella tecnologica.

Tutto ciò perché, in fondo, anche noi siamo un enigma per gli altri.

Spiccato il volo, la telecamera sul dorso dello scarabeo non mostrerà altro se non un grande mucchio di enigmi in costante movimento, che tenta di comunicare, interpretare e rinnovarsi. Eppure, sono sicuro che, in quel volo, lo scarabeo capirà molte cose su noi uomini. Perché è solo quando vediamo le nostre azioni dall’esterno che riusciamo ad esserne pienamente consapevoli.

Ancora una volta, vedersi vivere. Forse per scrollarsi di dosso le proprie responsabilità, per capire qualcosa in più su noi stessi, o solo per vedere come si appare agli occhi dell’altro.

Un sogno che, tramite la tecnologia, prova a diventare realtà.

Ma che si ferma un attimo prima di ciò che vorremmo ottenere.

Perché gli scarabei in volo ci mostreranno solo la realtà che ci circonda. E non saranno in grado di suggerire un modo per cambiarla.

Capita, a volte, anche nella nostra quotidianità. Far entrare qualcuno nella propria intimità, abituarlo all’ordinarietà e alle nostre passioni, ma non permettergli di abbattere quel muro che aprirebbe il dialogo, il confronto, il perdono. La conoscenza del prossimo e, ancor più, di sé, attraverso l’altro.

Domenica 30 agosto – “La malinconia del tempo”


Fuori, petulante, il temporale. Non accenna a placarsi. Come se non avessimo capito che l’estate se ne va.

Il mare è agitato, gli aghi di pino precipitano come meteoriti, i tuoni che si susseguono ai fulmini sono degni di un western di Sergio Leone. Io guardo lo spettacolo dalla finestra e realizzo come tutto ciò che vi era prima ora non c’è più. E mi domando se, e quando, ritornerà.

La fine dell’estate è parte di un tempo indefinito. Una stagione a sé. Inizialmente imprevista perché non si può credere che vi sarà mai un epilogo all’estate. Poi, una volta arrivata, la fine dell’estate diventa scontata e noiosa, così tanto che preferiamo non viverla nello stesso luogo in cui abbiamo vissuto le vacanze.

Dunque, finiamo per affollare le autostrade, i raccordi e pure i vicoli delle città, come se ciò che avviene dove c’è il mare ormai non ci riguardasse più. Come se non volessimo mettere la parola fine a ciò che amiamo. Come se fossimo sicuri che, ogni anno, l’estate tornerà, imperturbabile, come quella precedente.

E allora torneremo anche noi, con la stessa sfacciataggine, per riappropriarci di quei luoghi in cui abbiamo lasciato i ricordi estivi.

Le pagine dei libri scandite dai granelli di sabbia.

La libertà vigilata ottenuta da quei bambini che sembravano non crescere mai e che ora, finalmente, possono permettersi un bagno in canotto fino alla boa bianca.

Lo spettacolo dei gabbiani che colonizzano la spiaggia. I più grandi che insegnano ai più piccoli a vivere in branco: spostarsi, seguirsi a vicenda, attendere gli altri e se stessi.

I tramonti visti per aspettare l’alba. Il mare che inghiotte il sole, lo culla e lo scolpisce, e poi, al mattino, lo sputa fuori.

Nel tramonto si cela l’alba.

Nella nostalgia dell’estate passata si nasconde la speranza di quella futura.

Nel temporale, l’equilibrio dell’anima.

Nei rimpianti, la speranza.

Nel passato, il futuro.

E nel presente? Non lo so. Forse è cambiato tutto. O forse non è cambiato nulla. Apparentemente, non ce ne siamo accorti. È successo tutto troppo in fretta, forse.

O forse no.

Fuori continua a piovere. Vado a chiudere l’ombrellone.

Domenica 6 settembre – “Orchestrando quel suono”


Gli esperti dell’Università del Wisconsin, effettuando un esperimento sui volatili, hanno scoperto che, attraverso la somministrazione di oppioidi, gli uccelli canori fischiettano melodie simili al jazz. Essi producono suoni per vari motivi, come trovare un compagno, delimitare il territorio o per puro piacere.

E se l’Università dei Volatili si domandasse perché gli esseri umani emettono suoni?

Innanzitutto, da un semplice suono può nascere una via di comunicazione. Una parola, un dialetto, una nota suonata al pianoforte. Musica e poesia. Alla base, un bisogno umano ancor più grande di quello creativo: la necessità di comunicare.

Come l’oboe di Gabriel nel film Mission, in grado di tranquillizzare la tribù selvaggia dei Guaranì.

Come le musiche che diventano la colonna sonora della propria vita.

Tutto ciò solo grazie alla comunicazione indiretta tra musicista e ascoltatore, tra esseri umani e stati d’animo, tra ascolto e amore.

I suoni, inoltre, caratterizzano le stagioni. Inconsapevolmente, mai come prima, la colonna sonora di quest’estate, più che le hit estive, sono stati proprio loro: quei suoni che non ci saremmo aspettati di sentire e che, nonostante tutto, ci hanno accompagnato anche quest’anno.

Il tuffo che buca l’acqua.

L’onda che si stende sulla riva.

Il trattore che, a fine giornata, ordina i granelli di sabbia.

Le barche che, ormeggiate al porto, beccheggiano.

Forse aveva ragione il musicologo Marius Schneider quando affermava che, all’origine, noi esseri umani eravamo tutti suoni.

E, quando ci siamo liberati, abbiamo continuato ad essere tali.

Come direttori d’orchestra, dirigiamo i suoni che ci circondano: prima li accordiamo e poi li mettiamo in relazione con gli altri. Orchestrare, in fondo, significa ascoltare, rispettare, conoscere, dialogare. Nella musica come nella quotidianità.

E, forse, torneremo ad essere un suono anche quando tutto sarà finito.

Con la speranza che quel suono finale sarà il risultato di tutte le esperienze, le amicizie, gli amori e i dolori. Di tutti i suoni della nostra vita.

Domenica 13 settembre – “Polvere di stelle”


Fatto di polvere di stelle, a forma di sigaro, nel nostro sistema solare si aggira un intruso: secondo l’Università di Oslo, si tratta dell’asteroide Oumuamua (“messaggero che viene da lontano”).

Gli (in)esperti dell’Università della Vita hanno intercettato il messaggio dell’asteroide ed ora se ne vogliono fare portatori: “non abbiate paura di tornare alla normalità” recita l’intruso. La causa del messaggio risiede nelle considerazioni avanzate mentre, negli ultimi giorni, ci osservava, quieto e indisturbato, dall’alto.

Per l’asteroide è bastato affacciarsi nelle case, lì dove si annidano i pensieri più reconditi riguardo l’attuale situazione sanitaria e sociale.

Molti ragazzi positivi al Covid-19 si vergognano nel dichiararsi malati e finiscono così per rinchiudersi in un isolamento non solo fisico, ma anche mentale. Il timore di essere visti come untori irresponsabili del proprio quartiere.

Poi, alcuni genitori non vogliono mandare a scuola i propri figli.

Oumuamua si è anche rattristato quando ha sentito le voci di giovani universitari che, risultati positivi al tampone, hanno dovuto rinunciare ai test d’ingresso perché una situazione simile non era prevista dal protocollo.

Insomma, pare che l’uomo, di fronte ai problemi sociali provocati dal virus, voglia fermare il tempo e, di conseguenza, il mondo. Come se la soluzione fosse nell’ostacolo e non in colui che si prepara a saltare più in alto per evitarlo. Come se il virus ci impedisse di guardare a come vorremmo essere dopodomani.

Eppure, la vita, nel frattempo, continua. E noi non possiamo permetterci di evitarla, tantomeno di fermarla. Dobbiamo, invece, comprenderne i problemi e risolverli con tutti i mezzi di cui disponiamo. La cultura, l’istruzione, il lavoro e la scienza. Tutto ciò necessita di una vita comune e concreta, attiva, in grado di armonizzare.

Se è vero che esiste il diritto alla salute, è altrettanto vero che esiste il diritto allo studio e al lavoro, alla socialità, all’unicità della vita.

Oumuamua tutto ciò lo ha già capito. Ma lui è facilitato: dall’alto le cose si individuano con un occhio più completo. Ora sta a noi, vivere e sopravvivere, dal basso, da qui.

PS

Pensiero Salottiero

Chissà se, oltre alla forma di sigaro,

Oumuamua non emani anche l’aroma di vaniglia tipico dei Toscanelli.

In tal caso, dovremmo considerare di accoglierlo calorosamente nel nostro sistema solare.

E magari di spipacchiarlo beatamente,
rilassati su una poltrona e accompagnati da un Gin Tonic.

Domenica 20 settembre – “Cinema Show”


Inebriato dai pensieri, attanagliato dalla ricerca dell’originalità, forse solamente stordito dal traffico e dal cattivo odore di Roma, penso improvvisamente di essere incappato in un’idea geniale: scrivere un film sulla vita in quarantena. A metà fra il grottesco e il drammatico. Magari ambientato in un condominio, dove ad ogni casa corrisponde una storia: l’ipocondriaco, lo smartworker, il negazionista, la coppia in crisi e la famiglia perfetta. Ce ne sarebbe di materiale!

Eppure, mi basta leggere il notiziario per scoprire che qualcuno ci ha già pensato. A breve uscirà un film comico italiano ambientato durante il lockdown.

Cosa mi ha sorpreso di più? Critiche e accuse piovute sui social: non avere la sensibilità necessaria per trattare un tema simile, non rispettare i morti, voler guadagnare su qualsiasi storia possibile.

Pare che l’interpretazione artistica della contemporaneità sia rifiutata a priori. Siamo saturi di notizie sul virus? Temiamo che questo sia il primo di tanti film? O non abbiamo fiducia nel cinema comico italiano perché pensiamo solo ai cinepanettoni?

A mio avviso, i cosiddetti leoni da tastiera dimenticano dei particolari.

Il cinema è comunicazione.

È testimonianza della quotidianità per il futuro.

Un film non racconta solo una storia.

È una lente d’ingrandimento sull’intimità della vita: i sorrisi, gli amori, i drammi.

È uno specchio che, a seconda dello spettatore, riflette, mostra o nasconde.

Un periodo delicato come quello in cui viviamo ha necessità vitale dell’arte per essere raccontato. Non bastano i servizi al telegiornale o le storie sui quotidiani.

Vogliamo capire se ne usciremo migliori o peggiori? Una delle soluzioni è l’armonia di immagini, volti e musiche. L’immedesimazione, le emozioni e la riflessione. Il cinema.

Ovviamente, questo processo avviene se il film è bello.

E se non dovesse esserlo?

Pazienza.

Proprio perché vicino alla nostra realtà, sapremo giudicarlo meglio e indirizzare il prossimo verso un risultato migliore. È anche nel nostro interesse. Trasmettere una testimonianza più veritiera al futuro, a chi ci guarderà domandandosi cosa facessimo mentre si scrivevano pagine di storia.

PS

Pensiero Scabroso

A questo punto, azzarderei una personale definizione di cinema:

Un raggio di sole che riflette su un muro caliginoso.

Proiezione.

Percezione.

Protezione.